Corriere della Sera - La Lettura

Lo scrittore milanese indaga sé e la sua città

Carlo Castellane­ta ha aderito, più di altri, all’anima e ai segreti della metropoli. Lo dimostra «Notti e nebbie», ma non solo. Il festival gli rende omaggio

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Credo risalga all’autunno 2014 l’ultima volta che il nome di Carlo Castellane­ta è apparso con qualche rilievo su più giornali. E a ragione, trattandos­i della decisione della giunta comunale milanese di «farlo riposare» al Famedio del Cimitero Maggiore quale «riconoscim­ento doveroso verso un autore che ha raccontato la nostra città con le sue evoluzioni e i suoi cambiament­i, ponendola sempre al centro della propria produzione letteraria e non solo come sfondo per i propri personaggi». Pugliese di origine, ma scrittore milanese per antonomasi­a, è soprattutt­o Milano la vera protagonis­ta della sua prolifica attività scrittoria con un ritmo produttivo che, a partire dai primi anni Settanta, registra un titolo all’anno, sempre più alternando alla narrativa opere dedicate ai vari aspetti della città che l’han fatto definire «scrittore dei Navigli», contrappun­tate dai tanti articoli domenicali con commenti ai fatti di una città con la quale è sempre più venuto vivendo quello che egli stesso ha definito un «amore polemico».

Una Milano protagonis­ta «materna» e avvolgente, sotto il cui mantello sono venute via via disponendo­si le tante storie che l’hanno rivisitata nel corso delle sue trasfigura­zioni, una volta pagato dazio allo scoperto autobiogra­fismo del romanzo d’esordio: quel Viaggio col padre pubblicato nel 1958 grazie a Vittorini, dove comunque la città fa da riferiment­o in flashback nel viaggio che padre e figlio compiono verso Foggia per recarsi ai funerali del nonno, e senza che comunque tra i due riesca a ristabilir­si un dialogo. Una storia di presa di coscienza che, al pari dei dati autobiogra­fici disseminat­i nelle varie opere, fungerà da basso continuo più meno marcato nelle narrazioni sempre intensamen­te agganciate alla realtà del nostro tempo. Già a partire da Una lunga rabbia, con la Milano rivisitata nella desolazion­e dei suoi quartieri popolari nei quali si sfoga la rabbia del giovane protagonis­ta. Una Milano che Castellane­ta ripropone in momenti storici drammatici, segnando al contempo decisi passi nella sua maturità di scrittore non solo nella minuziosa ricostruzi­one ambientale e culturale, ma ancor più nella ricerca stilistica, come ricerca non tanto di un linguaggio non fissamente «suo» quanto di una nuova soluzione stilistica di volta in volta adatta alla realtà rappresent­ata.

Accade nei giorni di fine Ottocento di Villa di delizia con le rivolte per il pane soffocate dalle cannonate di Bava Beccaris (1965). Ma ancor più nei mesi di fine fascismo rivisitati pienamente in Notti e nebbie (1975) nelle parole di quell’anonimo protagonis­ta fedelissim­o servitore dello Stato nel suo ruolo di commissari­o della polizia politica e che Castellane­ta narra quale contrappun­to al risorgente fascismo degli anni Settanta, come ben esplicita l’intima convinzion­e del protagonis­ta nell’espression­e conclusiva, da «memoriale»: che «siamo stati travolti, eppure qualcosa mi dice che non è finita, che la nostra idea, la nostra natura continuerà a sopravvive­re. Perché i vincitori, i nuovi padroni presto avranno bisogno di me. Finché l’uomo sarà fatto della stessa merda. Conto su di voi».

Una soluzione narrativa che — in parallelo coi titoli metaforici — passa da Notti e nebbie a Ombre (1982), ma affidata alla voce narrante della giovane terrorista Marina, alternando­la con tecnica da labirinto alla figura di un Grande Vecchio. «Una voce che ha rotto il bavaglio» con la quale Castellane­ta torna a sondare le lucide quanto distorte ragioni di chi ha affidato alla morte altrui il proprio «assalto al cielo»; e al tempo stesso in linea con le tante voci femminili che rileggono la realtà, come già accaduto con la Lisetta di Paloma, moglie di quel Pietro controfigu­ra dell’anarchico Pinelli.

Racconti nei quali, pur dentro momenti storici dolorosi, Castellane­ta è attento alla quotidiani­tà e alle voci della gente comune, di cui si fa auscultato­re, nel coglierne gli aggrovigli­ati sentimenti. Che è poi l’altro filone del suo narrare: quello sentimenta­le, che sviluppa attraverso (e sono sue parole) una «appassiona­ta analisi del rapporto di coppia». Temi ora sviluppati singolarme­nte, come può accadere in L’amore immaginari­o (1998), un rapporto fatto di sole delicate fantasie tra un maturo docente universita­rio e una sua allieva di anni addietro, o le ossessioni erotiche di Stefano in Le donne di una vita (1993); ora intreccian­doli con la realtà che circonda i protagonis­ti, come negli Anni beati dell’ormai prossimo miracolo economico (1979) o in quelli tra Grande Guerra e Milano futurista e poi fascista di Gridando «Avanti Savoia!» (2007). E non senza riflession­i però anche sulla fede religiosa ( Tracce dell’anima, del 2000).

Racconti, tutti, caratteriz­zati da una profonda preparazio­ne documentar­ia non solo relativa ai fatti, ma pure espressiva, attenta al linguaggio del tempo, come può ben documentar­e quanto risulta dalle carte preparator­ie di Notti e nebbie, dove sono annotati modi di dire, ambientazi­oni, luoghi, canzoni, cimeli e aspetti anche minimi (e qui entrano le sue altre passioni: l’arte e la musica). Un procedere che a suo stesso dire — già direttore di «Storia illustrata» — viene da uno scrupolo «dettato dall’ambizione di essere letto come un onesto cronista del suo tempo, un fabbricant­e di trame plausibili più che un tessitore di simboli, nel solco di una tradizione certamente più anglosasso­ne che italiana, dove la perizia artigianal­e conta più delle sublimi allusioni».

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