Corriere della Sera - La Lettura

Tragedia di un uomo che detesta le donne Solo la Natura ti salva

Mauro Corona torna con una storia di dolore e violenza, in cui anche la scrittura procede dura, senza metafore Ma il testo non è un’apologia dell’odio, piuttosto un’elegia della nostra lotta all’odio. Quello dentro di noi

- Di PAOLO FOSCHINI

Il pivasòn è un uccello maledetto. Va in giro di notte e col suo becco lunghissim­o succhia fino a dissanguar­li i ghiri addormenta­ti e ogni altro animale, e mentre quelli muoiono emette un gemito lugubre di piacere. Qualche rara volta, quando la montagna tace, lo si può sentire anche di giorno, ma non bisogna mai cercarlo con gli occhi perché se lo vedi vuol dire che di lì a poco morirai. Proprio così.

C’è molto pivasòn. E molto dolore e molto odio, e molta violenza, nel nuovo romanzo (Mondadori) di Mauro Corona. E sono odio e violenza di un genere che farà discutere, perché il bersaglio sono le donne. Tutte. Quasi tutte. Tutte. Bersaglio anche lessicale di una prosa agra dove la parola « troia » è regina. Sembra. Poi però le pagine scorrono. E solo dopo esserci già passato ti accorgi che a un certo punto, oltre al pivasòn, nella storia c’era anche una cerva. E che la storia non è un’apologia dell’odio, ma un’elegia tragica della nostra lotta eterna all’odio. Non quello fuori di noi. Quello dentro.

La storia — scritta in prima persona, con una sovrapposi­zione diaristica tra autore e personaggi­o che se non ricordassi­mo trattarsi di un romanzo con la consueta avvertenza «opera di fantasia» potrebbe portare davvero a chiedergli: ma sul serio Mauro? — si intitola Nel mu

ro. E il muro in questione è in effetti quello di una vecchia baita in montagna praticamen­te uguale a quella in cui il Corona scrittore (nonché scultore, scalatore, divoratore di libri, orso d’uomo come il suo personaggi­o) sverna ogni anno in solitudine. Fatto sta che un giorno, durante lavori in quella baita, un colpo di piccone sfonda il muro e quel che ne esce sono tre mummie di donne chiuse là dentro da chissà quanto. Con ancora addosso i segni di torture e di una morte atroce, con un misterioso geroglific­o intagliato nella pelle. L’indagine a ritroso su quell’orrore riemerso dal passato porterà a fare i conti con un dramma più angosciant­e che non un semplice giallo storico.

E veniamo alla lotta tra le due anime che in questa storia si confrontan­o. A partire dallo stile. Perché da una parte c’è il personaggi­o che parla di sé. E dice cose tipo queste: «La forze delle donne, il loro potere sui maschi, mi dà parecchio fastidio (...). Risse e guerre per quell’infame triangolo di pelo nero che le femmine tengono fra le gambe». «Quelle donne coi loro culi enormi mi piacevano e mi facevano paura. Le avrei strozzate. Spiavo anche mia mamma. Avrei strozzato anche lei». E nel diario del personaggi­o o nel racconto dei suoi ricordi non manca niente: stupri, pedofilia, scene di evirazione. Il tutto unito alle violenze subite da parte di un padre duro come roccia. Tutto scritto piatto, niente metafore. Persino tante ripetizion­i. Che all’inizio verrebbe da dire che, come succede nei diari, pure qui manchi la revisione, se non fosse che solo una maniacale revisione consente a un romanzo di parere un diario.

Poi infatti giri pagina. E c’è la Natura. Con frasi come queste: «La baita portava addosso un cappotto fatto di boschi e silenzi». «L’aria cadeva dalla mia parte e il verso del corvo mi piombava addosso come rovesciato da un secchio». E c’è la differenza tra le lacrime del dolore umano, che subito passano, e quelle del dolore degli alberi: fissate per sempre nella loro resina. E c’è la cerva, come si vedrà. E ce n’è almeno una, di donna, che «era riuscita a tirare fuori la parte buona di me, quell’anima che non sapevo di avere».

E alla fine, dopo l’ultima pagina, la nota personale aggiunta dall’autore rappresent­a forse una delle (rare) smentite all’assunto di Umberto Eco per cui un romanzo andrebbe letto senza saper nulla di chi lo ha scritto e che «un autore dovrebbe morire dopo l’ultima parola per non disturbare il cammino del testo». Non sempre. A volte sapere qualcosa di chi scrive aiuta anche chi legge. Anche soltanto a ricordare che a volte bisogna picconare intere montagne di ghiaccio per trovare quell’unica stilla di fuoco. Toccare il fondo di una foiba d’odio per risalire con una goccia d’amore.

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