Corriere della Sera - La Lettura
La notte delle coppie asimmetriche
Filippo Bologna è uno scrittore che esordisce alla regia per raccontare il Capodanno di uomini e donne variamente assortiti. Riccardo Scamarcio un attore del cast che, da una posizione al margine, osserva uno spicchio del nostro mondo. Eccoli
Èil 31 dicembre. La radio annuncia una tempesta solare. Quattro coppie di sconosciuti sono pronte a incontrarsi in uno chalet di montagna per una serata tra scambisti. Il film Cosa fai a Capodanno?, al cinema dal 15 novembre, è l’esordio alla regia di Filippo Bologna (che firma anche la sceneggiatura), autore di tre romanzi — Come ho perso la guerra (Fandango, 2009), I pappagalli (Fandango, 2012), I morti non hanno fretta (Mondadori, 2014) — e sceneggiatore: con il regista Paolo Genovese, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello, è uno degli autori di Perfetti sconosciuti (2016). Ora riunisce in un unico luogo e in una sola notte un cast variegato: Luca Argentero e Ilenia Pastorelli (i presunti padroni di casa), Alessandro Haber e Vittoria Puccini (un politico e l’enigmatica compagna), Isabella Ferrari e Ludovico Succio (dove lei è accompagnata da un ragazzo molto più giovane); due «ospiti» a sorpresa, Sidy Diop e Arianna Ninchi; poi Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggeri (addetti al catering che cercano di raggiungere lo chalet con ostriche e champagne); e la coppia di sposi composta da Valentina Lodovini e Riccardo Scamarcio.
Il Capodanno, che appariva anche in alcune scene del suo primo romanzo, è protagonista in questo film.
FILIPPO BOLOGNA — È una metafora della frustrazione; la serata delle aspettative tradite: si crede sempre che il divertimento sia altrove. A questo si unisce l’idea che sia una serata dove tutto diventa lecito, anche la trasgressione. Un rito dionisiaco un po’ datato.
Nel film la ricerca di una trasgressione (che non si sa se arriverà) riunisce le coppie in un unico luogo. Riccardo Scamarcio interpreta un piccolo ruolo che apre e chiude la vicenda: il suo personaggio, Valerio, è in macchina in mezzo alla neve con la moglie. La meta è lo chalet, ma ci sarà un imprevisto.
RICCARDO SCAMARCIO — Ho letto il copione e ci ho trovato un’architettura complessa e precisa che sa risolversi nell’arco di una notte. Avrei voluto fare di più ma gli impegni si accavallavano. Allora ho accettato di interpretare Valerio.
Un ruolo marginale?
FILIPPO BOLOGNA — Non dal punto di vista narrativo.
RICCARDO SCAMARCIO — È ai margini ma non marginale. Ci siamo divertiti a pensare al personaggio in ogni dettaglio, al suo retropensiero, a quello che nel film non si vede. Tutto si è condensato nelle due scene all’inizio e alla fine.
Che coppie sono quelle del film?
FILIPPO BOLOGNA — Sono tutte coppie asimmetriche, mai veramente compiute, che per questo sono rappresentative della società di oggi. Ci sono un maschilista con una donna all’apparenza succube. Un politico cinico e una ragazza interrotta. Una femme fatale con quello che sembrerebbe il suo toy boy. C’è sempre, per età o per carattere, qualcosa che impedisce alla coppia di essere paritaria. Quella di Riccardo Scamarcio, che si muove nella cornice del film, è l’unica in cui si gioca alla pari.
Nel realizzare questo film, avevate in mente riferimenti ad altre pellicole?
FILIPPO BOLOGNA — I riferimenti devono essere alti, quindi: La grande abbuffata di Ferreri, Il fascino discreto della borghesia e Scola. Ma anche più popolari: i film dei Vanzina. C’era pure la suggestione del western, del Tarantino di The Hateful Eight in un tentativo di ibridazione di generi. Perché oggi agli spettatori non si può offrire solo il film che credono di andare a vedere, ci vuole un secondo livello. Questa è stata la forza di Lo chiamavano Jeeg Robot: Pasolini e il cinema di borgata che incontrano i supereroi.
RICCARDO SCAMARCIO — Non ho mai dei veri riferimenti. In questo caso ho pensato più a Mauro Di Francesco di Sapore di mare 2. A Chewingum. Il mio Valerio è un reduce degli anni Ottanta, che nella sua testa commenta tutto ciò che fa come in una diretta su Facebook.
Filippo Bologna arriva a questo film dopo «Perfetti sconosciuti» e il David di Donatello per la sceneggiatura. Cosa ha conservato di quell’esperienza?
FILIPPO BOLOGNA — Credo di aver portato con me la malinconia e l’amarezza di quel film, che passa per essere una commedia, ma è un dramma capace di creare disagio nello spettatore.
Prima narratore, poi sceneggiatore, ora regista. Questi passaggi hanno richiesto un cambio di prospettiva?
FILIPPO BOLOGNA — Ho sempre fatto la stessa cosa: creare un mondo e dei personaggi. Così nei romanzi, poi con la sceneggiatura e ora con la regia, dove gli attori sul set mettono in scena quel mondo e quei personaggi. L’ approccio di uno scrittore alla macchina da presa è diverso?
RICCARDO SCAMARCIO — No. Il lavoro sul set è l’arte dell’adesso e qui. Tutto quello che c’è stato prima è solo una base. Il cinema ha tre fasi: la scrittura, il set e la postproduzione, che è una riscrittura. Sul set devi adeguarti alla contingenza. In alcuni casi ciò che metti in scena è come l’avevi pensato.
FILIPPO BOLOGNA
—Talvolta è il contrario: allo rasi creala magia. Come sceneggiatore ti concentri sulla parola. Ma viene spazzata via da quello che avviene sul set. RICCARDO SCA
MARCIO — Uno scrittore costruisce il flusso dei suoi pensieri attraverso le parole, che sono il mezzo che genera un processo vitale e creativo. Al cinema non ci occupiamo solo di parole. Un film è questione di interazioni, momenti imprevisti che generano materiale emotivo vivo.
Torniamo al protagonista del film: la coppia.
RICCARDO SCAMARCIO — Questo tema ci interessa molto. Stiamo lavorando anche con Stefano Mordini alla sceneggiatura di un nuovo film che parlerà dell’infedeltà maschile. Mordini ne sarà il regista. Io il produttore e per la prima volta uno degli sceneggiatori, oltre che interprete. In un cast, ancora da definire, ma anche in questo caso corale.
Qual è la forza di un film corale?
FILIPPO BOLOGNA — Se è brutto è responsabilità di tutti. E se è bello il merito non è di nessuno.
RICCARDO SCAMARCIO — Il cinema è comunque un lavoro corale. Un film corale è in qualche modo più complicato. È come se il fuoco si restringesse e quindi richiede maggior precisione nel delineare ogni carattere, perché a ognuno è concesso meno tempo. Serve maggiore capacità di racconto e di sintesi.
FILIPPO BOLOGNA — In ogni caso nel cinema ci si sente meno soli. La solitudine che si prova scrivendo un romanzo non la augurerei a nessuno.
È questo che l’ha portata sul set?
FILIPPO BOLOGNA — Nella scrittura la depressione è dietro l’angolo. Il cinema ti impedisce di deprimerti, perché non sei mai solo con te stesso.
RICCARDO SCAMARCIO — E ti porta sempre da qualche parte. Ti costringe a vivere dei pezzi di realtà. FILIPPO BOLOGNA — Simenon diceva che «scrivere è una vocazione all’infelicità». Il cinema è un’avventura. RICCARDO SCAMARCIO — Fare cinema è un’assunzione di responsabilità.