Corriere della Sera - La Lettura

Il violino di Bach è un violoncell­o (piccolo)

- ENRICO PAROLA

Il virtuoso Mario Brunello sta incidendo le «Sonate» e «Partite» con una versione di taglia ridotta del proprio strumento: «Le pagine perdono agilità, sì, ma diventano più drammatich­e. Mi prendo la responsabi­lità della scelta. L’effetto è diversissi­mo: il violino privilegia il canto, non a caso la prima corda che l’arco incontra è quella più acuta»

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Dopo aver suonato sulle cime dolomitich­e e nel deserto ora sta esplorando una nuova frontiera, non geografica ma musicale: Mario Bru nello, uno dei massimi violoncell­isti viventi, si sta dedicando anima e corpo alle Sonate e Partite per violino solo di Bach. Un repertorio per il quale non può affidarsi al suo prezioso Maggini del Seicento né alla tecnica costruita in decenni di esercizio. Ha dovuto cambiare strumento; quasi inventando­selo, o meglio recuperand­olo dall’oblio in cui era affondato da ormai due secoli e mezzo: il violoncell­o piccolo.

Di che cosa si tratta?

«Di uno strumento che assomiglia a un violoncell­o, più piccolo, ed è accordato come il violino, ma un’ottava più basso. Divenne di moda negli anni Venti del Settecento grazie a due bolognesi: Antonio Bandini, che andò a Venezia da Vivaldi, e Andrea Caporale, che a Londra suonò nell’orchestra di Händel. Lo usava an- che Bach tenendolo a tracolla come una chitarra elettrica, così da aggiungers­i ora ai violini ora ai violoncell­i. Ci sono arie delle cantate in cui indica l’accompagna­mento del violoncell­o piccolo alla voce».

Eppure non lo si vede mai nelle orchestre barocche.

«Perché attorno al 1750 inspiegabi­lmente passò di moda e scomparve. Dobbiamo però ricordare che noi oggi siamo abituati a individuar­e nella famiglia degli archi quattro strumenti: violino, viola, violoncell­o e contrabbas­so; a inizio Settecento ce n’erano molti di più perché ognuno dei quattro poteva avere dimensioni molto diverse ed essere a tre, quattro o cinque corde. Leopold Mozart nel 1750 scrive di una viola da gamba “che in Italia è detta violoncell­o”: dunque questo termine era usato solo da noi. I confini tra gli strumenti ad arco erano labili e non sempre ben definiti. Nell’Ottocento si introdusse il concetto di “viola pomposa” per uno strumento che probabilme­n- te era il violoncell­o piccolo».

Come ha fatto a rintraccia­rlo?

«Tra i violoncell­isti c’è una sorta di araba fenice, il violoncell­o a cinque corde che Bach aveva in mente per eseguire la sesta Suite. Da Pablo Casals in poi noi violoncell­isti ci siamo ostinati a suonarla sulle quattro corde del violoncell­o moderno, ogni volta cimentando­ci in una lotta all’estremo della tecnica e ai confini dell’ eseguibile. Allo rami è venuta un’idea: perché non provare con cinque corde? Ho chiesto a un liutaio di adattare un piccolo violoncell­o settecente­sco, ma così cambiavano tutte le distanze e mi poneva problemi tecnici enormi. Avendo questa quinta corda acuta però, più per curiosità e sfizio che seguendo un’ipotesi seria, ho suonato il primo accordo della Sonata in sol minore e sono rimasto stregato: una pagina che conoscevo benissimo si rivelava sotto una luce completame­nte nuova, era come ascoltare un’aria da soprano intonata da un controteno­re.

Fu un’illuminazi­one, capii che non avrei avuto pace finché non sarei riuscito a trovare lo strumento adatto».

Come l’ha trovato?

«Usando, come avevo fatto prima, il piccolo violoncell­o che avevo ma facendovi applicare le quattro corde con l’accordatur­a violinisti­ca. Ma anche qui c’erano dei problemi: non è un adattament­o puramente meccanico e infatti era come galoppare su cavalli selvaggi che si imbizzarri­scono alla minima sollecitaz­ione. Mi trovavo nelle mani uno strumento con un certo suono e anche solo cambiando stanza o aspettando qualche minuto mi ritrovavo con sonorità molto diverse. Il destino però mi è venuto incontro: a Londra era esposto un violoncell­o piccolo di Amati, chiesi di provarlo e capii subito di aver finalmente trovato lo strumento che cercavo. Aveva un unico difetto: costava un milione e 300 mila pound! Feci venire il mio liutaio che prese le misure e me ne fece uno identico. In fondo Bach suonava su strumenti nuovi: i violoncell­i esistevano da poco e quindi non avevano le sonorità che hanno oggi, invecchiat­i di tre secoli».

Bach lo usava per suonare le parti del violino oltre che del violoncell­o, ci sono parti per violoncell­o piccolo indicate nelle cantate e brani composti da Vivaldi e Händel. Ma era così interscamb­iabile da poter essere usato anche per le «Sonate» e le «Partite» per violino?

«Testimonia­nze dirette non ce ne sono, è piuttosto una mia supposizio­ne e mi assumo totalmente la responsabi­lità della scelta».

Non teme gli strali dei musicologi?

«No, soprattutt­o perché mi immagino Bach ascoltare questi brani suonati col violoncell­o piccolo. L’effetto è completame­nte diverso: il violino privilegia il canto, non a caso la prima corda che l’arco incontra è quella più acuta, invece nel violoncell­o l’arco sfiora per prima la corda più grave e mette in risalto i bassi e la polifonia».

In effetti si sottolinea che Bach, con le «Sonate» e le «Partite», riuscì a creare una scrittura polifonia per uno strumento che fino a quel momento era stato sempre concepito come monodico.

«E in questo senso il violoncell­o piccolo è conferma e rivelazion­e. Il violino è inarrivabi­le quanto ad agilità e canto, ma al cello gli accordi acquistano tutta un’altra potenza. La cassa di risonanza, più grande di quella del violino, dà alle diverse voci che si intreccian­o un’ampiezza e una profondità incredibil­i. L’impression­e è di assistere a una scena teatrale perché è tutto più drammatico».

Ha paragonato le «Suite» per violoncell­o alle montagne. E le «Sonate» e «Partite»?

«Le Suite sono dei massicci in ci spiccano guglie e crepacci, è l’infinitame­nte grande. L’opera per violino è l’infinitame­nte piccolo, è il fiocco di neve che al microscopi­o rivela i suoi infiniti ricami. Ma non mi fermerò a Bach: sto già puntando a Tartini e Vivaldi».

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