Corriere della Sera - La Lettura
Il violino di Bach è un violoncello (piccolo)
Il virtuoso Mario Brunello sta incidendo le «Sonate» e «Partite» con una versione di taglia ridotta del proprio strumento: «Le pagine perdono agilità, sì, ma diventano più drammatiche. Mi prendo la responsabilità della scelta. L’effetto è diversissimo: il violino privilegia il canto, non a caso la prima corda che l’arco incontra è quella più acuta»
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Dopo aver suonato sulle cime dolomitiche e nel deserto ora sta esplorando una nuova frontiera, non geografica ma musicale: Mario Bru nello, uno dei massimi violoncellisti viventi, si sta dedicando anima e corpo alle Sonate e Partite per violino solo di Bach. Un repertorio per il quale non può affidarsi al suo prezioso Maggini del Seicento né alla tecnica costruita in decenni di esercizio. Ha dovuto cambiare strumento; quasi inventandoselo, o meglio recuperandolo dall’oblio in cui era affondato da ormai due secoli e mezzo: il violoncello piccolo.
Di che cosa si tratta?
«Di uno strumento che assomiglia a un violoncello, più piccolo, ed è accordato come il violino, ma un’ottava più basso. Divenne di moda negli anni Venti del Settecento grazie a due bolognesi: Antonio Bandini, che andò a Venezia da Vivaldi, e Andrea Caporale, che a Londra suonò nell’orchestra di Händel. Lo usava an- che Bach tenendolo a tracolla come una chitarra elettrica, così da aggiungersi ora ai violini ora ai violoncelli. Ci sono arie delle cantate in cui indica l’accompagnamento del violoncello piccolo alla voce».
Eppure non lo si vede mai nelle orchestre barocche.
«Perché attorno al 1750 inspiegabilmente passò di moda e scomparve. Dobbiamo però ricordare che noi oggi siamo abituati a individuare nella famiglia degli archi quattro strumenti: violino, viola, violoncello e contrabbasso; a inizio Settecento ce n’erano molti di più perché ognuno dei quattro poteva avere dimensioni molto diverse ed essere a tre, quattro o cinque corde. Leopold Mozart nel 1750 scrive di una viola da gamba “che in Italia è detta violoncello”: dunque questo termine era usato solo da noi. I confini tra gli strumenti ad arco erano labili e non sempre ben definiti. Nell’Ottocento si introdusse il concetto di “viola pomposa” per uno strumento che probabilmen- te era il violoncello piccolo».
Come ha fatto a rintracciarlo?
«Tra i violoncellisti c’è una sorta di araba fenice, il violoncello a cinque corde che Bach aveva in mente per eseguire la sesta Suite. Da Pablo Casals in poi noi violoncellisti ci siamo ostinati a suonarla sulle quattro corde del violoncello moderno, ogni volta cimentandoci in una lotta all’estremo della tecnica e ai confini dell’ eseguibile. Allo rami è venuta un’idea: perché non provare con cinque corde? Ho chiesto a un liutaio di adattare un piccolo violoncello settecentesco, ma così cambiavano tutte le distanze e mi poneva problemi tecnici enormi. Avendo questa quinta corda acuta però, più per curiosità e sfizio che seguendo un’ipotesi seria, ho suonato il primo accordo della Sonata in sol minore e sono rimasto stregato: una pagina che conoscevo benissimo si rivelava sotto una luce completamente nuova, era come ascoltare un’aria da soprano intonata da un controtenore.
Fu un’illuminazione, capii che non avrei avuto pace finché non sarei riuscito a trovare lo strumento adatto».
Come l’ha trovato?
«Usando, come avevo fatto prima, il piccolo violoncello che avevo ma facendovi applicare le quattro corde con l’accordatura violinistica. Ma anche qui c’erano dei problemi: non è un adattamento puramente meccanico e infatti era come galoppare su cavalli selvaggi che si imbizzarriscono alla minima sollecitazione. Mi trovavo nelle mani uno strumento con un certo suono e anche solo cambiando stanza o aspettando qualche minuto mi ritrovavo con sonorità molto diverse. Il destino però mi è venuto incontro: a Londra era esposto un violoncello piccolo di Amati, chiesi di provarlo e capii subito di aver finalmente trovato lo strumento che cercavo. Aveva un unico difetto: costava un milione e 300 mila pound! Feci venire il mio liutaio che prese le misure e me ne fece uno identico. In fondo Bach suonava su strumenti nuovi: i violoncelli esistevano da poco e quindi non avevano le sonorità che hanno oggi, invecchiati di tre secoli».
Bach lo usava per suonare le parti del violino oltre che del violoncello, ci sono parti per violoncello piccolo indicate nelle cantate e brani composti da Vivaldi e Händel. Ma era così interscambiabile da poter essere usato anche per le «Sonate» e le «Partite» per violino?
«Testimonianze dirette non ce ne sono, è piuttosto una mia supposizione e mi assumo totalmente la responsabilità della scelta».
Non teme gli strali dei musicologi?
«No, soprattutto perché mi immagino Bach ascoltare questi brani suonati col violoncello piccolo. L’effetto è completamente diverso: il violino privilegia il canto, non a caso la prima corda che l’arco incontra è quella più acuta, invece nel violoncello l’arco sfiora per prima la corda più grave e mette in risalto i bassi e la polifonia».
In effetti si sottolinea che Bach, con le «Sonate» e le «Partite», riuscì a creare una scrittura polifonia per uno strumento che fino a quel momento era stato sempre concepito come monodico.
«E in questo senso il violoncello piccolo è conferma e rivelazione. Il violino è inarrivabile quanto ad agilità e canto, ma al cello gli accordi acquistano tutta un’altra potenza. La cassa di risonanza, più grande di quella del violino, dà alle diverse voci che si intrecciano un’ampiezza e una profondità incredibili. L’impressione è di assistere a una scena teatrale perché è tutto più drammatico».
Ha paragonato le «Suite» per violoncello alle montagne. E le «Sonate» e «Partite»?
«Le Suite sono dei massicci in ci spiccano guglie e crepacci, è l’infinitamente grande. L’opera per violino è l’infinitamente piccolo, è il fiocco di neve che al microscopio rivela i suoi infiniti ricami. Ma non mi fermerò a Bach: sto già puntando a Tartini e Vivaldi».