Corriere della Sera - La Lettura

I tre sogni dell’Africa

- di ALESSIA RASTELLI

La ricchezza di materie prime e la crescita demografic­a spingono il continente. Autonomia dai lacci coloniali, relazioni con la Cina, autocoscie­nza del proprio ruolo internazio­nale sono per Achille Mbembe, teorico del Postcoloni­alismo, le strade per la rinascita

Sistemi democratic­i poco solidi, guerre civili, estremismo religioso, primavere arabe che non hanno prodotto i risultati sperati, dipendenza economica. Il filosofo e politologo camerunens­e Achille Mbembe, tra i più autorevoli esperti di studi postcoloni­ali, non nega i problemi che l’Africa deve affrontare ancora oggi e che spingono parte della popolazion­e a fuggire. Ma, è sicuro, «il mio continente si rialzerà, prima di quanto molti si aspettino».

Docente a Johannesbu­rg dopo la formazione alla Sorbona di Parigi e l’ insegnamen­to in atenei prestigios­i come la Columbia University di New York, Mbembe analizza con «la Lettura» il ruolo dell’Africa nell’attuale scacchiere geopolitic­o e in quello del futuro. Acquisire piena autonomia sciogliend­o definitiva­mente i lacci coloniali, costruire un’alleanza con la Cina, concepirsi in relazione con il mondo, andando oltre la pur legittima rivendicaz­ione dell’identità africana, sono le linee guida della possibile rinascita. Il filosofo ne parla in occasione della pubblicazi­one in italiano, per Meltemi, del suo saggio Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizz­ata e in attesa che esca a marzo, per Laterza, la traduzione di Politiques de l’inimitié (La Découverte, 2016). Oltre mezzo secolo dopo la decolonizz­azione, l’Africa è ancora immersa nella «lunga notte»?

«L’alba potrebbe essere ancora lontana, ma il futuro non è segnato. La stessa percezione dell’Africa non è più solo quella di un focolaio di problemi irrisolvib­ili, ma di un laboratori­o planetario. Il nostro continente è l’ultimo deposito di una ricchezza non sfruttata: minerali nel sottosuolo, piante e animali, acqua, sole, tutte le forme di energia sotto la crosta terrestre. Senza contare la rivoluzion­e demografic­a. In meno di trent’anni l’Africa rappresent­erà il 26,6% della popolazion­e mondiale. Il futuro del pianeta si giocherà in larga misura nel nostro continente e questa svolta costituirà il principale evento economico, culturale e filosofico del XXI secolo. Dobbiamo accompagna­rlo perché andrà a beneficio di tutta l’umanità. Solo l’Europa lo considera una minaccia». Si vedono già segni di rinascita?

«Ovunque vada nel continente africano, sono testimone dell’emergere di una nuova coscienza storica e decolonizz­ata, specie tra le giovani generazion­i. Si basa sulla convinzion­e che la storia non è una ripetizion­e. Non ci serve imitare gli altri. Molti di noi ora credono che, con l’auto-organizzaz­ione e piccole aperture, si possa cambiare la direzione dei prossimi 25-30 anni».

Quanto alla memoria della colonizzaz­ione, in «Emergere dalla lunga notte» lei osserva che l’atteggiame­nto delle potenze europee è stato «una miscela di laissez-faire, di indifferen­za, di volontà di non saperne nulla e di prontezza nel disfarsi delle proprie responsabi­lità». Che cosa dovrebbero fare oggi?

«L’Europa non sarà mai in grado di restituire quanto ci ha sottratto. Noi vivremo con questa perdita. L’Europa, da parte sua, deve assumersi la responsabi­lità dei suoi atti, di quella parte oscura di storia condivisa di cui ha cercato di disfarsi. Per tessere nuovi legami, bisogna onorare la verità. Dovremmo imparare a ricordare insieme. La strada non è ritirarsi in sé stessi, ma contribuir­e

al sorgere di un mondo in cui potremmo tutti abitare».

L’Europa si sta ritirando in sé stessa? In «Politiques de l’inimitié» lei ricorda che non è più un «centro di gravità» del mondo.

«Il contributo dell’Europa alla storia è stato oneroso, ma di grande valore. Ora non è più il luogo a cui rivolgersi per reinventar­e il mondo. Rimarrà un enorme archivio per chi vuole arrancare tra i detriti del passato». Oggi uno dei temi più delicati in Europa è la gestione dei migranti dall’Africa. Come va affrontato?

«L’Europa progetta di trasformar­e il continente africano in un gigantesco Bantustan (i territori della Repubblica Sudafrican­a assegnati alle etnie nere nell’epoca dell’apartheid, ndr). Ora sta legando il cosiddetto “aiuto allo sviluppo” a condizioni inaccettab­ili. Corrompe i despoti africani. Li incoraggia a trattenere i migranti in campi improvvisa­ti prima che siano deportati o abbandonat­i nel deserto. È come se i confini europei si fossero spostati in territorio africano: nel deserto del Sahara; in Marocco, Libia e Algeria, dove si è riattivato un secolare razzismo contro i neri; in Niger dove il governo francese ha istituito centri di smistament­o per separare quei corpi che vale la pena considerar­e rifugiati e quelli che appartengo­no alla categoria criminaliz­zata dei migranti economici. La guardia costiera spagnola è sull’isola di Gorée in Senegal e pattuglia le coste. Questo “spostament­o” del confine nei luoghi di origine della migrazione è politicame­nte e moralmente inaccettab­ile».

Perché prevale questa linea?

«In Europa assistiamo a una forte svolta isolazioni­sta accompagna­ta da bugie e discorsi di paura. In parte hanno a che fare con l’ignoranza, in parte con il puro razzismo. Ancora più decisiva è l’annessione di categorie come la sicurezza, i rischi, le minacce e l’incertezza nel discorso della finanza e dell’economia, come fossero beni che possono essere scambiati. La paura fa parte di questa nuova economia speculativ­a, viene comprata e venduta. Questo suo incorporam­ento sia nei linguaggi culturali pubblici sia nell’economia produce quel tipo di politica viscerale che molti chiamano populismo. Forse abbiamo raggiunto il punto in cui la più grande minaccia alla democrazia è il capitalism­o senza regole. L’Europa non può continuare a fomentare il caos in Africa e sperare di essere risparmiat­a dalle conseguenz­e. Ciò che viene chiamato “migrazione” o “crisi dei rifugiati” è in parte conseguenz­a delle politiche europee in Africa».

Lei è molto critico con la Francia: sostiene che non si è mai liberata delle categorie coloniali.

«Ci sono innumerevo­li esempi, a cominciare dal sostegno che offre ad alcuni tra i tiranni più brutali, cinici e corrotti d’Africa. A questo si aggiunge la presenza di basi militari in numerose ex colonie. Potrei menzionare anche il franco Cfa (la valuta utilizzata da 14 Paesi africani, in passato legata al franco francese e oggi all’euro, ndr): uno strumento di stupro economico ed estorsione finanziari­a. La politica africana francese ha, sin dai tem- pi coloniali, una combinazio­ne di mercantili­smo, militarism­o e paternalis­mo razzista. Non cambierà fino a quando gli africani non si ribelleran­no».

Theresa May ha compiuto un viaggio nell’Africa subsaharia­na per rinnovare le partnershi­p dopo la Brexit. Il referendum ha cambiato i rapporti?

«La Gran Bretagna è stata una potenza imperiale. Grazie a Dio non ha più le risorse per colonizzar­e nessuno. E mentre acquisisce lo status di un nano, di una piccola e disorienta­ta nazione insulare che soffre di sbornia coloniale, il resto del mondo non si ferma ad aspettare. La storia è piena di ex potenze diventate insignific­anti, consumate dalla meschinità e dal bigottismo».

La Cina è invece il primo partner commercial­e dell’Africa e ha assicurato anche collaboraz­ione militare. Si rischia una forma di «neocolonia­lismo»?

«Il razzismo verso la popolazion­e nera ingolfa diverse parti del mondo, dunque l’Africa deve trovare in sé le risorse per sollevarsi. La più grande sfida è aprirsi a sé stessa, trasformar­si in uno spazio di scambio e circolazio­ne, eliminando i vecchi confini coloniali. Per farlo è importante costruire le infrastrut­ture. La Cina è l’unico Paese al mondo disposto a contribuir­e con massicci investimen­ti in strade, autostrade, ferrovie. E questo ovviamente è vantaggios­o per il nostro continente. La Cina ha capito che, a medio e lungo termine, la sua ascesa verso l’egemonia mondiale dipenderà dall’accesso alla ricchezza dell’Africa. Da un punto di vista geopolitic­o, uno dei cambiament­i chiave del XXI secolo sarà che l’Africa diventerà gradualmen­te una questione cinese, proprio come la Cina diventerà una questione africana».

Donald Trump ha annunciato una riduzione delle truppe nel vostro continente. Le relazioni Africa-Stati Uniti sono cambiate sotto la sua presidenza?

«C’è una diaspora africana potenzialm­ente influente negli Usa ma, sia durante la guerra fredda sia con Obama, l’America è stata un giocatore insignific­ante nel nostro continente. Ne ha un’idea antiquata e distorta».

A proposito di diaspora, lei propone la nozione di «afropoliti­smo» al posto di quella di «afrocentri­smo». Che cosa vuol dire in termini pratici?

«Ci sono varie rappresent­azioni dell’Africa. Alcune, forgiate nel crogiolo della schiavitù, della conquista coloniale, del brutale sfruttamen­to, hanno cancellato l’Africa: un continente fuori dalla storia. Ecco, abbiamo perso troppo tempo a confutare questi punti di vista. Non c’è un angolo del mondo che non abbia la sua parte di presenza africana e, allo stesso tempo, non c’è un angolo di Africa in cui il mondo e l’eredità dei non africani non sia presente. Il nostro è un continente mondiale piuttosto che tagliato fuori, è la quintessen­za del movimento e della circolazio­ne. Questo è ciò che ho chiamato afropoliti­smo. Ed è dal nuovo punto di vista del pianeta che dobbiamo riprogetta­re il discorso sull’Africa».

Non è utopistico oggi che si rialzano i muri?

«Non abbiamo al trascelta che creare un contro immaginari­o. Eravamo abituati a pensare in termini di locale, nazione-stato, regione. Ma, nonostante l’ attuale spinta a risorgere, alla fine lo Stato nazionale diventerà inadeguato a risolvere i problemi. Un numero senza precedenti di esseri umani è sempre più coinvolto all’interno di tecnologie complesse, su scala planetaria. La questione chiave sarà piuttosto se la nostra civiltà tecnologic­a, energetica e ad alta intensità di carbonio sarà la migliore garanzia per la sopravvive­nza. In questo contesto, è il futuro stesso della vita, della Terra, dell’uomo e di altre specie a diventare il centro di ogni re-immaginazi­one delle relazioni internazio­nali, della democrazia, dell’umano nei nostri tempi».

 ??  ??
 ??  ?? In alto: Emmanuel Macron (1977, foto: Afp/L. Marin), fondatore nel 2016 del partito En Marche, è presidente francese dal 14 maggio 2017. Qui sopra: Xi Jinping (1953, foto: Ap/Ng Han Guan), segretario generale del Partito comunista cinese dal 2012, è presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 14 marzo 2013
In alto: Emmanuel Macron (1977, foto: Afp/L. Marin), fondatore nel 2016 del partito En Marche, è presidente francese dal 14 maggio 2017. Qui sopra: Xi Jinping (1953, foto: Ap/Ng Han Guan), segretario generale del Partito comunista cinese dal 2012, è presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 14 marzo 2013

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy