Corriere della Sera - La Lettura

C’è una «storia deviata» su Gramsci e Togliatti

- di FEDERIGO ARGENTIERI

Il recente libro di Angelo d’Orsi sulla vita di Gramsci e quello di Giuseppe Vacca su Dc e Pci dal 1943 al 1978 rappresent­ano un buon punto di partenza per affrontare il tema dell’attività svolta dall’Istituto Gramsci nell’ambito della storiograf­ia italiana. In generale, si può dire che il livello delle pubblicazi­oni è vario, che sono stati affrontati alcuni temi scomodi precedente­mente ignorati, ma che alcuni altri continuano a non essere trattati: ciò fa trapelare un serio residuo ideologico, contrario all’approccio privo di alcun pregiudizi­o che è buona norma mantenere.

Il primo nodo finalmente sciolto (dopo «appena» novant’anni) riguarda un incontro tra Gramsci e Lenin, svoltosi al Cremlino il 25 ottobre 1922 alle 18, alla sola presenza dell’interprete, e durato oltre due ore. Ad esso d’Orsi dedica una pagina scarsa, riferendo che in precedenza era stato menzionato in un saggio di Maria Luisa Righi e nel libro del nipote di Gramsci, Antonio jr., sulla sua famiglia. L’italianist­a russa Natalia Terekhova rileva che tale incontro non compare nella cronologia online della Internatio­nal Gramsci Society: ma infatti che importanza storica può avere un incontro tra Gramsci e il massimo leader sovietico, all’epoca già malato, ma ancora in pieno possesso delle sue facoltà?

Si apprende poi che la dirigente comunista Camilla Ravera era al corrente di questo colloquio e del suo contenuto e lo aveva menzionato in una lettera a Giuliano Gramsci (figlio di Antonio), pubblicata però solo nel 2012 e non inclusa nella prima edizione del suo Diario di

trent’anni uscito nel 1973. In compenso, Antonio Gramsci jr. ci informa che la fonte relativa all’incontro tra Lenin e Gramsci risale a un volume pubblicato in Urss nei primissimi anni Settanta. Pertanto si può dire che il ritardo sia di «solo» quarant’anni e non di novanta, ma non sarebbe stato il caso di intervista­re la stessa Ravera su quanto Gramsci le aveva raccontato a caldo? E perché sottovalut­are ancora oggi un incontro così importante? Forse per evitare di dire che Gramsci fu nominato a capo del Partito comunista d’Italia dai bolscevich­i russi?

Un altro evento completame­nte trascurato riguarda la profonda e giustifica­ta irritazion­e di Gramsci, nel 1924 fondatore e primo direttore dell’«Unità», nei confronti della disinvoltu­ra (a dir poco) manifestat­a dal primo ambasciato­re sovietico a Roma, Konstantin Jurenev, dopo il delitto Matteotti: nel luglio 1924, quattro mesi dopo il suo arrivo a Roma e un mese dopo la scomparsa del deputato socialista (poi ritrovato cadavere in agosto), costui invitò a pranzo Mussolini, invito rinnovato e anch’esso accettato il 7 novembre per festeggiar­e il settimo anniversar­io della rivoluzion­e d’Ottobre. Era evidente che i due regimi, in procinto di diventare totalitari, si piacevano «a prescinder­e», come ulteriorme­nte dimostrato anni dopo con la firma, avvenuta il 2 settembre 1933, del «Trattato italo-sovietico di amicizia, non aggression­e e neutralità».

Passando alla storiograf­ia sul secondo dopoguerra, accanto a studi interessan­ti ad esempio sui rapporti PciAmerica latina, così come utile è quello sulla battaglia di Guadalajar­a del 1937, bisogna segnalare altre notevoli contorsion­i logiche e/o silenzi tombali intorno a problemi delicati. Il libro di Valerio Riva Oro da Mosca sui finanziame­nti sovietici resta un tabù assoluto, in particolar­e la nota di Boris Ponomariov del 4 dicembre 1956 in cui si faceva stato del versamento, durante quell’anno, di 2 milioni e mezzo di dollari al Pci, di 500 mila al Psi e di 250 mila alla Cgil. Quale credibilit­à può avere una storiograf­ia che prescinde da questo dato struttural­e relativo a un anno cruciale?

Altri sono tabù più relativi, come ad esempio il racconto del colloquio tra Iosif Stalin e Palmiro Togliatti nella notte fra il 3 e il 4 marzo 1944 (alla vigilia del ritorno in Italia del leader del Pci), fatto dall’ex segretario dell’Internazio­nale comunista Georgi Dimitrov nel suo diario. La decisione di far collaborar­e il Pci al governo Badoglio fu di Stalin, ma non bisognava dirlo: Togliatti eseguì alla lettera le direttive del Cremlino, ma i suoi idolatri esaltarono ed esaltano tuttora quella scelta come un suo «capolavoro». Poi ci sono le acquisizio­ni sulla rivoluzion­e ungherese del 1956, mai citate seppure recepite da Silvio Pons, citate ma respinte da Vacca. La lettera manoscritt­a di Togliatti al presidium del Pcus, redatta in un intervallo della riunione di direzione del Pci il 30 ottobre 1956 e giunta la mattina dopo ai destinatar­i in traduzione russa, può non aver avuto un ruolo decisivo nel far propendere il Cremolino per l’intervento armato a Budapest — furono più importanti le posizioni assunte da Mao e da Tito —, ma certamente incoraggiò ulteriorme­nte e non poco i fautori della linea dura e lo stesso titubante Nikita Krusciov.

La richiesta di Togliatti a János Kádár di rinviare l’esecuzione di Imre Nagy, che aveva guidato il governo a Budapest durante la rivoluzion­e, a dopo le elezioni italiane del maggio 1958, accolta dal leader filosoviet­ico ungherese, è pertinacem­ente ignorata da molti studiosi, così come la simultanea scandalosa delazione compiuta dallo stesso Togliatti nei confronti del filosofo György Lukács, il quale cercava di mobilitare gli intellettu­ali italiani a difesa di quelli ungheresi sotto processo. Un’altra richiesta, anch’essa accolta ed esposta in una successiva lettera manoscritt­a dell’aprile 1963 al segretario generale cecoslovac­co Antonin Novotný, di non riabilitar­e prima delle imminenti elezioni italiane Rudolf Slánský, impiccato nel 1952, non viene presa in consideraz­ione.

Altro tabù quasi assoluto è la relazione dell’italianist­a Genrikh Smirnov, interprete ufficiale del Pcus a partire proprio dall’estate del 1964, il quale nel 1998 a un convegno in Italia testimoniò direttamen­te come Leonid Brežnev avesse utilizzato il memoriale di Yalta, scritto da Togliatti poco prima di morire, per spodestare Krusciov: ne scrisse di sfuggita anni fa Adriano Guerra, ma per il resto silenzio assoluto, per evitare di affrontare un altro tema assai scomodo.

Conclusion­e: la storiograf­ia riunita intorno all’Istituto Gramsci ha tuttora seri problemi a confrontar­si con le dure repliche della storia, nel suo persistent­e tentativo non tanto di restituire tutta la complessit­à e le tragiche contraddiz­ioni di Gramsci, di Togliatti e del partito da essi ispirato e diretto, cosa che sarebbe di grande utilità, ma di separarli a forza e quasi disperatam­ente dall’esperienza sovietica e, nel caso di Togliatti, anche da quella degli altri Paesi «socialisti», così inventando un personaggi­o che non è mai esistito grazie ad un uso delle fonti assai disinvolto e paradossal­mente simile a quello in uso in tali Paesi, non oggi, ma prima del 1989.

Alcuni autori di sinistra sottovalut­ano i fatti che dimostrano la forza del legame tra i leader del comunismo italiano e il blocco sovietico. Per esempio il modo in cui i bolscevich­i misero il futuro autore dei «Quaderni» a capo del Pci negli anni Venti. E soprattutt­o l’appoggio di Togliatti, dopo la denuncia dei crimini di Stalin, alle scelte repressive del Cremlino e alla parte conservatr­ice del suo gruppo dirigente

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