Corriere della Sera - La Lettura
Apollinaire, l’avanguardia del ’900
Nella Parigi dei tardi anni Dieci, grazie alla sua vocazione sperimentale divenne un punto di riferimento per gli artisti. Attraversò gli orientamenti culturali del suo tempo come un delfino entra ed esce dall’acqua
Non è facile immaginare una situazione di poesia più singolare di quella di Guillaume Apollinaire. Non nel Novecento europeo, almeno. Leggendo molte sue poesie si avverte inequivocabilmente il flusso della vita che scorre, come un’energia elementare che preme e si rinnova al di là di tutto. Per la poesia francese verrebbe da pensare a quello che Antonio Machado o Umberto Saba sono stati per la poesia spagnola e italiana. Ad esempio: «Mia giovinezza abbandonata/ Ghirlandetta sciupata/ Ecco la stagione viene/ Dell’ombra e delle pene». La «calda vita», così la chiamava proprio il nostro Saba.
Eppure le cose sono più complesse. Se infatti Machado e Saba hanno scritto i loro versi guardando indietro o nel fondo, come un consapevole controcanto al mito facile della modernità, Apollinaire nel cosiddetto spirito della vita moderna si è invece calato da cima a fondo, facendone anzi lo scenario elettivo della propria poesia. La metropoli contemporanea, lo scorrimento della vita cittadina, la varietà e il cozzo continuo dei colori, delle forme, dei caratteri, il contrasto delle lingue e delle culture, e tant’altro. Nella Parigi dei tardi anni Dieci, fino al termine della Prima guerra mondiale (morì a trentotto anni, nel 1918, vittima dell’epidemia di febbre spagnola), Apollinaire è stato non a caso un punto di riferimento fondamentale per gli artisti di tutte le avanguardie. La sua fisionomia poetica della stessa avanguardia possiede del resto alcuni tratti distintivi: la vocazione sperimentale, l’insofferenza della staticità, il distacco formale, il gusto dell’acrobazia e del gioco verbale, la disposizione cosmopolita, le percezioni sovreccitate, il culto del presente che procede verso il futuro.
Tra innovazione e tradizione (amava la natura, il retaggio popolare, le antiche fiabe), tra sperimentalismo e lirica, tra sradicamento e adesione, si può dire allora che la sua arte poetica si è nutrita delle sue stesse contraddizioni. Apollinaire ha infatti partecipato pienamente al proprio tempo, ma «senza mai lasciarsi imbrigliare da un’ideologia letteraria», come nota Maurizio Cucchi introducendo il volume Canzoni per le sirene, uscito a sua cura per Mondadori. Non solo gli avversari ma gli amici ne riconoscevano in sostanza l’imprendibilità, che assumeva volta a volta la forma del depistaggio, dell’indecisione, della superficialità. Ed è vero, perché di fatto, pur nei proclami e posizionamenti continui, ha attraversato gli orientamenti artistici più à la page del suo tempo come un delfino che entra ed esce dall’acqua. Di conseguenza, si può vedere un po’ di tutto nei suoi versi, ma il percorso, ecco, quello è soltanto suo, unico a tutti gli effetti.
Il contrasto basilare che s’accende nei versi di Apollinaire, allora, si può anche riassumere come quello tra il vitalismo e la vita. Il curatore ricorda opportunamente un passaggio di uno scritto fondamentale di Sergio Solmi sul poeta francese, lì dove si parla della sua «adesione incondizionata all’avventura terrestre». Visto che Canzoni per le sirene raccoglie traduzioni di Vittorio Sereni e di Giovanni Raboni, oltre che dello stesso Cucchi, è lecito pensare che sia stata proprio questa virtù d’adesione ad attrarre traduttori-poeti così autorevoli. Apollinaire, infatti, è stato in ogni senso un campione di partecipazione all’orizzonte immediato della vita, che è una prospettiva non troppo comune nel Novecento italiano (dove infatti ha preso il no medianti-Novecento ).
Tuttavia, è anzitutto nel primo aggettivo proposto da Solmi — incondizionato — che vanno trovate le ragioni della sua forza. Di fronte al grande spettacolo del vivente, questo poeta non si è precluso nulla. Anzi, proprio l’ assenza di un’ideologia, diciamo anche solo di un pensiero statico o di un’ipotesi prefigurata nel contatto con la realtà attraverso la scrittura (con tutte le ambiguità, le oscillazioni, le sconfessioni che ne sono derivate), può essere presa come indizio della sua completa, davvero inusuale disponibilità ricettiva. Di conseguenza, stupisce anche di più la sua capacità di governare questo spettacolo, di sintetizzarlo nella forma poetica senza privarlo del suo dinamismo, della sua vitalità intrinseca. «E tu bevi questo alcool che brucia come la tua vita/ La vita che tu bevi come fosse acquavite»: canto e concretezza, poesia e prosa a questo punto fanno una cosa sola, non si distinguono più.