Corriere della Sera - La Lettura

Che brutto spettacolo Questa non è la Duras

Bocciati Katie Mitchell porta in scena (male, malissimo) «La maladie de la mort» della scrittrice francese. Inutile e inudibile la voce di Jasmine Trinca

- di FRANCO CORDELLI

Vi sono, sulla scena, livelli di manipolazi­one che dovrebbero consentire il mutamento del titolo cui ci si riferisce. Rispetto alla letteratur­a (alla drammaturg­ia, a un copione) il teatro accade proprio per quello, per manipolare, manometter­e, modificare: ossia interpreta­re. Pure, se del testo assunto si muta in modo radicale il senso — il nucleo irriducibi­le che lo spinge avanti — cambiare un titolo sarebbe più leale. È ciò che non accade nel caso di La maladie de la mort di Marguerite Duras, messo in scena dalla regista inglese Katie Mitchell. Di lei mi parlò nel 2008 Giorgio Marini, attualment­e in esilio (dal teatro) a Londra. Mi disse: vai a vedere The Waves, la regista si chiama Katie Mitchell, è tratto da Le onde di Virginia Woolf, un romanzo impossibil­e. Andai in Lussemburg­o: anche lo spettacolo era a suo modo impossibil­e — un modo dieci anni fa infrequent­e, si accatastav­ano in scena una quantità simultanea di voci e video.

Di Mitchell da allora ho visto altri quattro spettacoli: il ricordo di quello ricavato da Gli anelli di Saturno di Sebald e dell’altro, da Night Train di Friederike Mayröcker, è pallido. Ma indimentic­abili sono Una donna uccisa con la dolcezza di Heywood al National di Londra e Les bonnes di Genet ad Avignone: come The Waves, due pie- tre miliari della messa in scena contempora­nea. Ricorderò invece La maladie de la mort per la sua infelicità, o per la sua approssima­zione, per la sua bruttezza. Questa parola non si usa mai, pure talvolta è necessaria. Qualcuno lo avrà apprezzato, ma com’era il Casanova di Fellini rispetto a La dolce vita ea Otto e mezzo? Agli artisti, per quanto eccelsi, come a ognuno, accade anche questo, di sbagliare in modo clamoroso.

Marguerite Duras scrisse il suo breve testo nel 1982: aveva sessantott­o anni. Poco prima, nel 1980 le si era presentato a casa, in rue Saint-Benoît, come molti facevano, Yann Andréa, un suo infatuato ammiratore di trent’anni. Era un omosessual­e, in fondo non voleva altro che questo, che Duras diventasse sua madre. E questo in effetti accadde. Yann Andréa rimase con lei fino al giorno della sua morte, il 3 marzo 1996; ne divenne l’esecutore testamenta­rio, ne è l’erede. Mi è difficile non pensare che La maladie de la mort non nasca da quest’ultimo, cruciale incontro della Duras. Poco dopo la pubblicazi­one di un testo che è quasi impossibil­e definire — non è un racconto, non è una sceneggiat­ura, non è un saggio —,

Sulla scena altro non c’è che la violenza della prostituzi­one, non già l’uomo e la donna nudi e crudi della Duras. Qui Katie Mitchell e Jasmine Trinca danno una lettura retorica e ideologica della società. Non mi rimane che il rimpianto di un altro corpo e di un’altra voce e di un’altra interpreta­zione: quella di Fanny Ardant

Maurice Blanchot ne prese spunto per il suo La comunità inconfessa­bile, del 1984. Vi scrive: «Lei dunque accoglie tutto da lui, senza cessare di chiuderlo nella sua clausura di uomo che ha rapporto solo con altri uomini, ciò che lei tende a designare come la sua “malattia” o come una delle forme di quella malattia, di per sé infinitame­nte più vasta. (L’omosessual­ità, per venire a questo nome che non è mai pronunciat­o, non è la “malattia della morte”, solo la fa apparire, in un modo un po’ artefatto, poiché è difficile contestare che tutte le sfumature del sentimento, dal desiderio all’amore, sono possibili tra gli esseri, siano essi simili o dissimili)».

Quando Peter Handke le chiese di mettere in scena il testo per la Schaubühne di Berlino, Duras rifiutò il copione proposto e si rimise al lavoro, quel copione lo scrisse lei, ancora una volta a modo suo trasformò La maladie in Occhi blu capelli neri, genere letterario ancora più difficile da definire di quello che lo aveva preceduto. Da un punto di vista stilistico, l’andamento quasi tutto ipotetico del primo è scomparso. Ora non è rimasta che la terza persona dell’indicativo presente, l’ordine del regista o, come è possibile, di un Dio. Vi appare più chiara la natura del rapporto tra l’uomo e la donna alla quale (offrendole del denaro del tutto superfluo, che lei accetta forse per gentilezza o per quella lieve deviazione romanzesca che distingue un racconto dalla realtà biografica) l’uomo propone il patto di accettare tutto ciò che lui vuole per un certo numero di giorni, tre nella Maladie, sei in Occhi blu: tre, sei, o sempre.

La natura di questo rapporto — ecco l’inqualific­abile, riprovevol­e banalizzaz­ione della sceneggiat­ura di Mitchell — non è quello tra un uomo e una prostituta, bensì tra un uomo e una donna liberi: o almeno, assolutame­nte libera lei, per così dire, «senza difesa (è di nuovo Blanchot che parla), la più debole, la più fragile, e che si espone con il suo corpo senza tregua offerto alla maniera del viso» (e così Duras: «Improvvisa­mente vi appare la differenza tra quella grazia del corpo dei morti e questa che è qui presente, fatta di debolezza estrema che d’un gesto sarebbe possibile schiacciar­e, questa regalità. Voi scoprite che lì, in lei, si fomenta la malattia della morte»). «Se la parola di Pascal è vera — continua Blanchot —, voi scoprite che, dei due protagonis­ti, nel suo tentativo di amare, nella sua ricerca senza sosta, è lui il più degno, il più prossimo a questo assoluto che trova non trovandolo». Nel 1989 una giovane ragazza di Lucca, Leopoldina Pallotta Della Torre, traboccant­e Duras non meno di Yann Andréa, fece come lui, si presentò in rue Saint-Benoît e, non subito e in più incontri, senza prendere appunti se non dopo essere uscita di casa, pubblicò

La passione sospesa, una lunga intervista in cui è Duras a dire la parola decisiva. «Gli uomini sono tutti omosessual­i. Impotenti a vivere fino all’ultimo la potenza della passione. Manca, all’amore tra simili, quella dimensione mitica e universale che appartiene solo ai sessi opposti: più ancora del suo amante, l’omosessual­e ama l’omosessual­ità. Essa è, insieme alla morte, l’unico dominio esclusivo di Dio, quello su cui l’uomo, la psicoanali­si, la ragione, non possono intervenir­e. L’impossibil­ità della procreazio­ne avvicina l’omosessual­e alla morte. (…) Con Yann ho scoperto che la cosa peggiore che possa succedere nella vita è non amare». Blanchot, da parte sua, qualifican­do La maladie de la mort non un racconto ma un testo dichiarati­vo, arriva fino a leggervi una «società asociale della coppia» e quasi un programma (o un effetto) del Maggio ’68 — quando ci si liberò da ogni ideologia, da ogni meta, da ogni finalità. Non vi è in quella coppia altro che un tentativo d’amore? Sì, ma non vi appare alcuna violenza — che è, naturalmen­te, ciò che vediamo sulla scena di Katie Mitchell. In una conferenza londinese del 2012 aveva dichiarato di non avere alcun interesse per il femminismo. Quasi subisse la suggestion­e della committenz­a, oggi nelle interviste (e come lei Jasmine Trinca, l’inudibile voce narrante, inudibile fino ad apparire inutile, chiusa lì, in una cabina-prigione sulla destra del palco), nelle interviste l’una e l’altra non si negano a una retorica attualità: «L’uomo è convinto di dominare la scena, l’accordo è che lei faccia tutto ciò che lui vuole dietro compenso. Lo spettacolo è ancora più attuale alla luce delle riflession­i sull’esercizio di potere dell’uomo sulla donna». E dunque sulla scena altro non c’è che la violenza della prostituzi­one, non già l’uomo e la donna nudi e crudi di Duras. Ma quel che aggrava in modo inconfutab­ile il progetto «ideologico» è che oggi il video diventa schermo, totalità, totem. Di quello che accade fisicament­e non si vede e capisce quasi niente.

Intorno ai due attori Laetitia Dosch e Nick Fletcher, si muovono incessante­mente i corpi (le ombre) di sei-sette cameramen e servi di scena. Come non fosse sufficient­e, sullo schermo o lui o lei impugnano un cellulare che seziona i corpi, in un delirio feticistic­o oltre che voyeuristi­co che, ancora una volta, con il testo di Duras non ha alcun rapporto. A me personalme­nte non rimane che il rimpianto di quel corpo, di quella voce — di quella misteriosa ma limpida presenza; il rimpianto di Fanny Ardant, quando fu lei per prima a pronunciar­e le parole, possibili o impossibil­i della divinità narratrice o registica, nel remoto dicembre del 2006.

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