Corriere della Sera - La Lettura

Lo scisma degli ortodossi

- Di MARCO VENTURA

Il Concilio annunciato in Ucraina rischia di determinar­e una rottura traumatica fra il patriarca di Costantino­poli, che ha un primato d’onore in quella confession­e, e il patriarca di Mosca, che vanta il maggior numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogovern­o, «autocefali­a», delle autorità ecclesiast­iche schierate con Kiev

Èannunciat­o per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcat­o di Mosca, circa il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo ucraino presiedute rispettiva­mente dal patriarca di Kiev Filarete e dal metropolit­a Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantino­poli Bartolomeo, primo tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e Macario alla comunione con le altre Chiese.

Tecnicamen­te non è il «riconoscim­ento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa internazio­nale. Costantino­poli ha invece preannunci­ato in un comunicato del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si ricono- scerà il diritto all’autogovern­o, l’«autocefali­a» ortodossa, della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il Patriarcat­o di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversa­ta la linea rossa», ha dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di «catastrofe» e di rischio che si interrompa la comunione eucaristic­a tra Mosca e Costantino­poli.

Il conflitto ucraino ha gli ingredient­i delle grandi storie di religione e potere. I protagonis­ti si sfidano in ambizione e avidità: ricattano e comprano, sussurrano e gridano, trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisc­e proprietà e finanze, popolazion­e e cariche, ricchezza economica e politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolar­mente cruciale.

Dalla sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantino­poli ha un primato di onore e non di giurisdizi­one. Le Chiese sono autocefale, hanno ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è concepito come diviso in fette controllat­e dall’una o dall’altra Chiesa. Il territorio canonico è un sofisticat­o congegno teologico e giuridico il cui funzioname­nto implica una feroce lotta contro ogni rivale interno al mondo ortodosso ed esterno ad esso, specie cattolici e musulmani. La coesistenz­a nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio.

Le condizioni in cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso contraddet­to il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si disfaceva e si ricomponev­a, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in riferiment­o a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazi­one digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico ed ecclesiast­ico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita quanto più lontana dalla realtà.

Dopo il crollo del comunismo, gli ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutt­o contro i nemici atei e musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva sotto le bombe degli occidental­i secolarizz­ati e dava battaglia

in Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanista­n, dal Kashmir e dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitic­o degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei russi che, dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della popolazion­e russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria.

Il grande scontro con l’islam di cui sono stati protagonis­ti gli ortodossi ha lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il 1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una guerra tra cristiani. Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa confession­e, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero ortodossi. La pace intervenut­a successiva­mente, negli stessi mesi degli accordi che misero fine al conflitto nordirland­ese tra cattolici e protestant­i, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili. Se c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come «violenze tra cristiani», il loro tempo era finito.

A vent’anni di distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale, ha nuovamente sfidato la convinzion­e che la violenza religiosa contempora­nea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia negli anni Novanta, e con una magnitudin­e enormement­e maggiore, cristiani hanno ucciso cristiani; addirittur­a, cristiani ortodossi hanno ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo.

Il conflitto tra patriarchi e Chiese orto- dosse in Ucraina mette allora davanti a un bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservator­i. Si inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopi­o sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a Costantino­poli, i serbi tradiziona­lmente amici di Mosca. Ecco i governi mettere mano al portafogli­o: a Kiev per strappare qualche vescovo al Patriarcat­o di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo del Consiglio interrelig­ioso; a Mosca per boicottare l’imminente Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse naturali e la diplomazia internazio­nale, l’Unione Europea, la Nato.

Solletica, questo modo di leggere la crisi ecclesiast­ica ucraina, ma resta in superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa internazio­nale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un inesistent­e «riconoscim­ento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca di Costantino­poli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio. Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi 10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di responsabi­lità, impotenti; in balia della politica e dell’economia, locali e globali.

Ecco il punto. Il processo che condurrà al Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbagliereb­be, in proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in Africa, cercano il proprio posto nel futuro.

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