Corriere della Sera - La Lettura
L’invenzione di Roma
753 a.C.-476 d.C.
Mille anni di storia sono stati spesso «aggiornati» nei secoli per annunciare la rinascita della potenza imperiale, della convivenza tra i popoli, delle virtù repubblicane. Fino al fascismo, che ha adulterato — e non poteva essere altrimenti — l’iconografia. Ora, una ricca coincidenza di mostre, film e riedizioni di classici riporta ancora una volta l’attenzione su quell’epopea millenaria
Come i revenant di tanti racconti sparsi nei secoli, il cadavere dell’antica Roma è tornato spesso tra i viventi a raccontare la propria vita e la propria morte. Ad anticipare sciagure e ad ammonire. Ancora più spesso è apparso nelle sembianze di un fantasma pieno di vita, per annunciare la rinascita della potenza imperiale, della convivenza pacifica tra i popoli, delle virtù repubblicane. Paure, visioni, inveramenti, tutto ciò e altro ancora ha rappresentato quello che chiamiamo il «mito di Roma».
La dimensione politica di questo fenomeno si è perpetuata fino a poco tempo fa: i nonni o i bisnonni degli italiani di oggi vedevano sfilare i soldati con le aquile e i fasci romani apparire ovunque, impressi sui tombini delle fogne e scolpiti nelle grandi decorazioni; constatavano come un messaggio politico efficace creasse in pochi anni una tradizione, facendo del saluto con il braccio teso una modalità caratteristica del tipo umano romano-fascista. Sotto i loro occhi i paesaggi di tante città venivano disarticolati e ricomposti, per dare vita a un inedito habitat dominato dai monumenti romani. Dalle parole dei maestri e dalle copertine dei quaderni scolastici apprendevano che il duce era l’incarnazione più autentica dell’antico romano, non solo nella tempra e nelle idee grandiose ma nel fisico stesso, che faceva di lui una sorta di uomo-statua, marmo e carne, postura solenne e occhi lampeggianti.
Gli studiosi, anche quelli seri, vanno spesso a caccia delle deviazioni, osservando, non senza una sfumatura di riprovazione, che questo o quell’aspetto del mito fascista della romanità tradiva le caratteristiche genuine e che nell’insieme quell’operazione culturale e ideologica altro non era che una profanazione della storia. Esercizi del genere sono forse inevitabili, ma sicuramente sterili. Da un mito politico ispirato al lontano passato non ci aspettiamo il rigore filologico o il rispetto dei documenti. Con queste cose si costruiscono i libri eruditi e i corsi universitari, non i regimi. Se aspira a essere efficace e quindi creativo, un mito politico deve necessariamente inventare il passato, «riscriverlo» per dare anima alla vita attuale e alle prospettive future. Si potrebbe anzi sostenere che un mito politico ispirato al passato è tanto più potente quanto più si allontana dall’autenticità storica. Lo stesso era avvenuto con l’«anticomania» della Rivoluzione francese e delle repubbliche giacobine, che avevano sacralizzato l’esperienza repubblicana facendo rinascere i cesaricidi Bruto e Cassio, nemici dei tiranni (Giulio Cesare come Luigi XVI) e martiri della libertà.
Quella fascista è stata l’ultima attualizzazione politica del mito di Roma. Se si intraprende una guerra mondiale indossando le corazze metaforiche dei legionari e la si perde in pochi mesi, la tragedia suscita un irresistibile invito al sarcasmo e all’ironia. Quegli stessi uomini di governo (primi fra tutti Stalin e Churchill), osservatori politici, giornalisti, disegnatori e vignettisti che in Europa e nel mondo avevano preso molto sul serio l’ultimo travestimento degli italiani, si atteggiavano ora a disvelatori del grande imbroglio. Mussolini era un «Cesare di cartapesta», un «romano di cartapesta», e che altro potevano essere gli italiani se non «romani di cartapesta»?
Il discorso sul carattere degli italiani, aspetto importante della nostra immagine mondiale dal Medioevo ai nostri giorni, trovò conferme e nuove versioni. Quel popolo che aveva respinto la nuda verità delle chiese riformate e si era fatto suggestionare dall’oro e dalle luci delle chiese barocche era lo stesso che dalla commedia dell’arte aveva appreso a recitare anche nella vita, lo stesso che versava lacrime melodiose nei teatri lirici, lo stesso, infine, che si era fatto ipnotizzare da un impareggiabile capocomico chiamato Benito Mussolini. Come ha compreso Sergio Luzzatto, questi giudizi avevano un retrogusto benevolo, perché potevano volgersi in sentimenti paternalistici e assolutori nei confronti di un popolo rimasto adolescente, più immaturo che malvagio, più emotivo che razionale.
Se, come in un gioco di società, fossimo costretti a indicare due cose che sono rimaste di questa ultima metamorfosi politica della Roma antica, la risposta sarebbe facile: via dei Fori imperiali e il saluto romano. Via dei Fori, costruita dal fascismo con la motivazione di restituire all’originaria maestà gli edifici che affollavano il cuore dell’impero romano, è stata una potente invenzione: la spazialità dell’antica Roma era totalmente diversa, come riusciamo a percepire studiando l’archeologia e gli autori antichi. Ma nel frattempo via dei Fori si è storicizzata ed è diventata essa stessa un monumento-documento che è sconsigliabile eliminare a meno di non voler applicare l’eugenetica al paesaggio urbano.
Gli usi moderni del cosiddetto saluto romano, come ha dimostrato lo storico americano Martin M. Winkler, devono molto al quadro di Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi (1784). Gli effetti scenografici e la religiosità civile valorizzati dal pittore francese hanno influenzato il teatro ottocentesco e poi il cinema, senza trascurare la sua adozione, in una prima fase, nel Pledge of Allegiance, il saluto alla bandiera statunitense. È stato un nuovo simbolismo a fare del saluto fascista la più riu-
scita tra le invenzioni storiche del Ventennio. Nei rituali pubblici e nella vita quotidiana, quel gesto esprimeva un’appartenenza intrisa di marzialità. Nella pratica del «saluto al duce» rappresentava anche l’assoluta fedeltà al capo. Era infine la più sintetica manifestazione dell’uomo nuovo fascista, un’azione veloce di uomini in continuo movimento, una miscela di tradizione e futurismo, un’antitesi antropologica del saluto borghese, espressione di un animo sedentario, ciondolante in una parassitica perdita di tempo. Nella società romana il braccio levato era uno dei tanti modi di salutare e aveva un significato augurale privo di risvolti politici, ma questa constatazione sarebbe stata sotto il regime tanto semplice quanto inefficace. Suscita qualche meraviglia, invece, il fatto che ancora oggi, a ogni levata di braccio di un neofascista italiano, venga evocata, naturalmente quanto abusivamente, l’antica Roma: per amor di storia, se non per amor di patria, questo si potrebbe evitare.
Anche se le parole «per sempre» non si addicono agli storici, è ragionevole ritenere che il connubio tra la storia romana e la politica effettiva sia finito per sempre. Quando milioni di persone in tutto il mondo immaginano Roma, si addentrano in racconti in bilico tra realtà e fantasia, tra un simile rassicurante e un esotico che seduce e inquieta. Forse fra qualche tempo per molti si avvererà persino l’intuizione di Federico Fellini, il Colosseo come asteroide caduto in mezzo a noi: «L’altra notte, al Colosseo… Questa orrenda catastrofe lunare di pietra, questo immenso teschio mangiato dal tempo e arenato in mezzo alla città, l’ho visto per un attimo come la testimonianza della civiltà di un altro pianeta e mi ha comunicato un brivido di terrore, e di voluttà. Un attimo: ma per la prima volta mi sono sentito immerso nella lucidità convulsa dei sogni, nella temperatura febbricitante dei presentimenti e della fantasia».