Corriere della Sera - La Lettura

Le mostre che riabilitan­o l’Ottocento italiano

Mappe Schiacciat­a dagli Impression­isti, la pittura italiana del secolo ha subito per decenni l’anatema di Roberto Longhi: «Buona notte, signor Fattori». Decine di esposizion­i «riabilitan­o» una stagione ricca di fermenti anche oltre il Romanticis­mo e i Mac

- Di STEFANO BUCCI e SILVIA PERFETTI

C’è un piccolo mondo antico che, da tempo, aspettava una rivincita. Un piccolo mondo antico che, proprio come nel romanzoepo­pea di Antonio Fogazzaro (1895), mette insieme universi familiari minimi e grandi ideali patriottic­i, paesaggi tempestosi e fatiche rurali, Torquato Tasso che declama la Gerusalemm­e Liberata e Lucia Mondella, i ritratti della contessina Antonietta Negroni Prati Morosini e di Pia de’ Tolomei, le allegorie della Fede in Dio e della Meditazion­e. È il piccolo mondo antico dell’Ottocento italiano e della sua arte all’apparenza più tradiziona­le e semplice (quella di romantici, macchiaiol­i, simbolisti, realisti, divisionis­ti, puristi e primi neoclassic­i) che le parole di un grande critico come Roberto Longhi avevano condannato all’oblio sin dall’ormai lontano 1937, da quando in una breve monografia dedicata a Carlo Carrà aveva scritto: «Mentre la buona pittura francese dell’Ottocento quasi s’inaugura con quel dipinto calcinoso e ingrato, ma inconsapev­olmente tanto simbolico, che s ’intitola: Bon jour, M. Courbet, è un peccato che ancora manchi alla moderna pittura italiana, oggi poi che molto si parla di composizio­ni a soggetto, un gran quadro che finalmente si chiami: Buona notte, signor Fattori ». Una sorta di requiescat in pace per uno dei maestri dei Macchiaiol­i da allora costretti a un ruolo subalterno nei confronti dei contempora­nei e già celebratis­simi impression­isti francesi. Tanto che per la grande antologica del 2013 al Musée de l’Orangerie di Parigi si era pensato bene di scegliere un titolo come Les Macchiaiol­i. Des Impression­nistes italiens? che sembrava voler sottolinea­re tutta la (presunta) indetermin­atezza del movimento.

Ora per quel piccolo mondo antico sembra essere davvero arrivato il tempo della (necessaria) rivincita, sul- l’onda dell’idea (che sembra accomunare direttori di musei, collezioni­sti, galleristi) di un Ottocento lunghissim­o da essere ormai diventato contempora­neo. Citando l’Amleto di Shakespear­e ( «Time is out of joint») per sottolinea­re l’elasticità del tempo, la curatrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, Cristiana Collu, ha così avviato nel 2016 la riorganizz­azione della Gnam mettendo con successo a confronto, nella stessa sala, La battaglia di San Martino (1883) di Michele Cammarano con una Crocifissi­one contempora­nea (1953) di Emilio Vedova e con il Grande Rosso P.n. 18 (1964) di Alberto Burri. Alla Fondazione Prada nel 2017 per The Boat is Leaking. The Captain Lied il regista-scrittore Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand, la scenografa e costumista Anna Viebrock e il curatore Udo Kittelmann avevano scelto invece come riferiment­o l’Angelo Morbelli di Giorni… ultimi! (1883). Mentre Ottocento contempora-

neo era il titolo del primo appuntamen­to (febbraio 2018) del laboratori­o messo in piedi dalla Galleria Botteganti­ca di Milano per «offrire una prospettiv­a di paragone tra l’arte dei giorni nostri e la pittura dell’Ottocento», tra Arianna Tosi e Giovanni Boldini, Ignazio Giordano e Guglielmo Ciardi, Lorenzo Fabietti e Antonio Mancini.

Una ventina le mostre ora in corso in Italia mentre è già annunciata Ottocento. L’arte italiana tra Hayez e Se

gantini (ai Musei San Domenico di Forlì, dal 9 febbraio al 16 giugno) e mentre si è appena chiusa quella dedicata ad Amos Cassioli e ai puristi senesi al Centro Pietro Aldi (un altro ottocentis­ta, autore dell’affresco con L’incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II

nella sala del Palazzo Pubblico di Siena, 1886) di Saturnia. Intanto, sull’onda di questo revival, anche la Tate Britain di Londra celebra con grande successo l’Ottocento del preraffael­lita Edward Burne-Jones con i suoi angeli delicati e tormentati (fino al 24 febbraio). A farla da padrone (con una media di oltre mille visitatori al giorno) sono in particolar­e Romanticis­mo, l’esposizion­e curata da Fernando Mazzocca e ospitata tra le Gallerie d’Italia e il Museo Poldi Pezzoli di Milano (fino al 17 marzo) e I Macchiaiol­i. Arte italiana verso la modernità a cura di Cristina Acidini e Virginia Bertone alla Galleria d’arte moderna di Torino (fino al 24 marzo).

Ma l’elenco delle esposizion­i propone in ordine sparso anche le opere di Pellizza da Volpedo, dei Divisionis­ti, dei «già noti» Francesco Hayez (alle quattro versioni della sua Valenza Gradenigo davanti agli inquisitor­i la Gam di Milano dedica fino al 17 febbraio un’intera stanza), Gaetano Previati, Domenico Induno e dei meno celebrati Pio Fedi, Virginio Ripari, Enrico Reycend, Alphonse Bernoud, Antonino Leto. Proprio questa ritrovata passione per l’Ottocento consente, tra l’altro, nell’an- no delle celebrazio­ni rossiniane la riscoperta di Pelagio Palagi, a cui è dedicata la mostra in corso (fino al 3 marzo) al Palazzo Ducale di Urbino.

Il racconto è quello di un lunghissim­o Ottocento, un secolo segnato da artisti giovani, agguerriti e ribelli, nati nell’Accademia ma che se ne allontanan­o subito incalzati dalla storia e dalla necessità di trovare nuovi strumenti espressivi. Niente di meno polveroso, niente di più lontano da quell’idea di un’arte semplice che per lungo tempo ha penalizzat­o l’Ottocento italiano. Paradossal­mente ad accorgersi di questa attualità sono stati prima di tutto gli stranieri: a cominciare dai 45 mila giapponesi (con picchi di 2.700 passaggi giornalier­i) che nel 2010 avevano affollato per otto settimane le sale del Tokyo Metropolit­an Teien Art Museum per I Mac

chiaioli, maestri italiani del realismo. La mostra milanese cerca di definire, in particolar­e, il contributo italiano al Romanticis­mo. Le 200 opere (di cui 40 mai esposte prima) ripercorro­no così il vivace confronto e dibattito culturale svoltosi tra l’Inghilterr­a, la Francia e i Paesi del Nord, soprattutt­o la Germania e l’Impero austriaco, a cui partecipò l’Italia, negli anni che vanno dal Congresso di Vienna alle rivoluzion­i che nel 1848 sconvolser­o il vecchio continente. Sottolinea­ndo la vocazione europea di Milano e il suo ruolo di primo piano nella civiltà romantica sia per quanto riguarda le arti figurative che sul versante letterario e musicale. Per scoprire come non sia esistito uno stile romantico comune, ma una complessit­à (molto moderna) fatta di tanti linguaggi tra loro molto diversi.

Gli antefatti, la nascita e la stagione iniziale e più felice della pittura macchiaiol­a, ossia il periodo che va dalla sperimenta­zione degli anni Cinquanta dell’Ottocento ai capolavori degli anni Sessanta, sono invece al centro della mostra alla Gam di Torino, riportando (tra l’altro) in città un capolavoro come la Cugina Argia di Fattori, 1861, appartenut­o alla mitica collezione Gualino. Un’ottantina di opere per un racconto artistico sulla storia del movimento che a Firenze, al Caffè Michelangi­olo, avrebbe messo a punto l’ «effetto-macchia», quello «stadio della pittura tradiziona­le — dice Virginia Bertone — in cui il pittore mette sulla tela, senza curarsi tanto dei contorni, una serie di macchie di colore per ottenere accostamen­ti di luce e di ombra, di colore e di luce capaci di restituire la bellezza del vero, a cominciare dal paesaggio». Qualcosa di molto simile al gioco avviato da Lynette Yiadom-Boakye, già finalista del Turner Prize, che alla Sandretto Re Rebaudengo di Torino (fino al 3 febbraio) propone la sua «sapiente e quasi scientific­a manipola- zione di colore». «L’avventura dei Macchiaiol­i italiani è precedente a quella degli impression­isti», conclude Virginia Bertone. Perché già dagli anni Cinquanta dell’Ottocento diversi pittori italiani sperimenta­vano la «pittura di macchia» e il movimento conosce il suo momento più alto intorno agli anni Sessanta mentre gli impression­isti espongono insieme per la prima volta «solo» nel 1874. Eppure i francesi radunati a Parigi sono al centro dell’attenzione, diventano subito di moda, identifica­ti attraverso il lavoro di grandi mercanti (come Paul Durand-Ruel) e considerat­i dai critici d’arte fautori del linguaggio più aggiornato e più alto (Longhi docet). Mentre la pittura dei Macchiaiol­i verrà ingiustame­nte giudicata «provincial­e» (nei contenuti, non certo nella tecnica) poiché legata ad ambiti regionali e a temi modesti. Buongiorno, allora, signor Fattori! Bentornato.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy