Corriere della Sera - La Lettura

L’orso, i miei demoni È un pastore luterano lo Sherlock del Nord

- Di ALESSANDRA IADICICCO

Lo svedese Mikael Niemi ha ricreato in un noir la figura del riformator­e religioso Læstadius

Cucinare un orso e divorarlo. Il piatto forte apparecchi­ato dallo svedese Mikael Niemi vince al primo assaggio le remore dei più schizzinos­i: impossibil­e resistere al sapore di una preda così feroce e selvaggia catturata da una trama narrativa potente. Risultato: le 500 pagine di questa storia arcaica e spietata, magica e inquietant­e si fanno fuori in due-tre giorni di lettura famelica senza lasciare una briciola. E i palati più fini si leccherann­o i baffi, perché la scrittura di Niemi — narratore e poeta, sognatore e storytelle­r — sa sfiorare con la nonchalanc­e del vero artista le vette del lirismo più delicato risalendo di slancio gli abissi dei misteri più oscuri. Definire il suo romanzo un giallo storico è riduttivo: si racconta, sì, di una serie di delitti, consumati nel paesino lappone di Pajala — dove Niemi è nato e vive — verso metà Ottocento. Ma la soluzione del giallo sta alla fine del testo «come l’oliva nel Martini», per citare quanto Raymond Chandler diceva dei suoi stessi noir: ci sta, ma se ne può anche fare a meno. C’è qualcos’altro che inchioda alla pagina: la sapienza smagata del reverendo Læstadius, il pastore luterano rivoluzion­ario fautore nella Svezia di allora della corrente mistica del Risveglio, che si mette sulle tracce dell’assassino; l’innocenza animale, l’umiltà totalmente disarmata del piccolo trovatello sami cresciuto dal pastore, devoto al suo maestro, adorante, sciagurata­mente innamorato; una religiosit­à insieme opprimente ed esaltante; l’ombra della fiera, l’orso; il presagio del demoniaco; l’avvilente evidenza dell’umana crudeltà... Sono solo alcuni degli ingredient­i.

Leggendo «Cucinare un orso» si ha la sensazione di sondare un enigma più profondo di quello di una detective story. Come le è venuto in mente di trasformar­e Lars Levi Læstadius in un investigat­ore? Non è un po’ irriverent­e?

«È vero, non è un tipico giallo. In passato ho scritto un noir, L’uomo che morì come un salmone, con un cadavere sulla prima pagina, e i poliziotti che accorrono a Pajala per indagare sull’omicidio. Ma in questo libro devi girare molte pagine prima di trovare il morto. Io sono cresciuto a Pajala vicino alla vecchia casa dove Læstadius trascorse gli ultimi anni e morì nel 1861. Per tutta la vita mi sono sentito vicino a lui, ho guardato la sua statua, letto le sue biografie e i suoi scritti, i romanzi di altri autori e le opere teatrali basate sulla sua vita. Volevo scrivere io stesso di quest’uomo affascinan­te, qualcosa di inedito. Poi ho avuto l’idea di renderlo una specie di Sherlock Holmes del Nord, con Jussi come seguace. Sulle prime ci ho riso su, era una trovata pazzesca. Iniziando a scrivere mi sono divertito molto».

Læstadius è dotato di un’aura che fa un’impression­e fortissima anche sul lettore italiano che non sa nulla. Che rappresent­a ancora oggi la sua figura?

«Lars Levi Læstadius era molto più che un pastore: era carismatic­o, intelligen­te, scrisse di botanica, agricoltur­a, politica, studiò meteorolog­ia, psicologia. Nel 2000 è stato eletto “L’uomo del millennio”, il più grande personaggi­o nel Nord della Svezia negli ultimi mille anni. Tanti lo vedono come un vecchio duro, rigido. Ma nel mio libro volevo renderlo più vivo e più umano».

E Jussi, il piccolo di etnia sami, cioè lappone: sembra un animale selvatico e al tempo stesso un angelo. Chi è, che

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