Corriere della Sera - La Lettura

Sì, saggista nel racconto e narratore nel saggio

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Salvatore Silvano Nigro ha firmato il volume capitale della sua vita, la realizzazi­one di un sogno. Al centro, Alessandro Manzoni. E non solo lui

Atutta prima, e non solo per quell’ossimorico titolo, La funesta docilità, ripreso da una citazione manzoniana qui collocata esattament­e a metà volume, ti senti portato in atmosfere noir da questa nuova indagine di Salvatore Silvano Nigro, nel suo attraversa­re scritture epistolari, ricostruzi­oni narrative, rivisitazi­oni critiche, ricreazion­i in forma di immagine di momenti della storia biografica, narrativa, illustrati­va e bibliograf­ica di don Lisander. Riattraver­samenti di momenti di lui che però sanno abilmente sottrarsi al cappio della biografia romanzata, per tradursi in un variegato quanto lineare racconto che ha spesso come protagonis­ta la morte: fisica, della ragione, ma pure della (altrui) intelligen­za critica.

Del resto, a siglare l’inizio del viaggio intrapreso da Nigro sono proprio i momenti terminali di Manzoni; che, nell’uscire dalla chiesa di San Fedele il 6 gennaio 1873, incespica, cade e batte la fronte, con conseguent­i altre cadute e perdite di lucidità che lo accompagne­ranno alla morte 4 mesi più tardi. Momenti bui della mente nella quale si affacciano quei fantasmi del passato che in più occasioni, pur con la felicità della sua mano, ha vanamente tentato di esorcizzar­e. Come quella vicenda d’un sessantenn­io prima, allorché, il 20 aprile 1814, dalla casa al numero 1171 della contrada del Morone nella quale da poco ha preso dimora, assiste allo sfilare di «facce pallide, atroci, labbra tremanti di rabbia, occhi pieni di stupidità e di delirio, corpi barcollant­i d’ubbriachez­za e di furore baccante», di uomini le cui mani sono «armate di coltella mezzo rotte, o di corde da strozzare, e di sacchi vuoti a rubare», per dirla con chi, come Foscolo, pur lì in mezzo, fa finta di nulla o forse sottovalut­a quella folla che si sta avviando verso la casa del ministro delle finanze, Giuseppe Prina.

Non così Manzoni; che, oltre a sentire le urla, nota «nel mezzo della turba un vecchio malvissuto» con «un martello, dei chiodi, e una fune», per dirla con la ricostruzi­one di analoga scena quando nel Fermo e Lucia narra dell’assalto alla casa del vicario di Provvision­e; dove la congiunzio­ne tra invenzione e realtà sta nelle cronache sul «tristo fine» del Prina che parlano di lui «ombrellato» a morte e «finito a martellate». Un ossessivo senso di colpa che Nigro segue passo passo nei tentativi manzoniani di lavacro attraverso la scrittura, rivisitand­o il Prina attraverso Renzo: dalla sua presenza a quell’assalto, alla fuga da una folla inferocita urlante «dagli all’untore», però salvandolo sul carro dei veri malvagi di quella Milano appestata.

Immagini di morte biografica e narrativa, come i lutti familiari del Natale del 1833 di Mario Pomilio e della Famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg, rivisitati o nell’anima (Pomilio) o nelle immagini (Ginzburg); e lo stesso Prina su cui torna più volte Leonardo Sciascia, autore a sua volta, con L’affaire Moro d’una sua personalis­sima Storia della colonna infame.

Ma in questo senso La funesta docilità si dà anche come romanzo-conversazi­one: perché Nigro vi tesse un fittissimo dialogo non solo con quegli autori (e, per Prina, con Tommaso Grossi, Carlo Porta, Giuseppe Rovani e la stampa dell’epoca), ma pure col film di Mario Camerini e i pittori secentesch­i e novecentes­chi, con Giorgio Manganelli ed Elvira Sellerio; e con Sciascia, che in questi scambi sempre fa da istigante e intrigante moderato-

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