Corriere della Sera - La Lettura
Feticci
La Vespa di Moretti arriva a Torino per tenere compagnia agli altri tesori Anche il cinema ha le sue reliquie
Pantheon pagani Il regista Davide Ferrario racconta il proprio rapporto (professionale sì, ma anche molto sentimentale) con gli oggetti dei film. Mentre sta per aprire una installazione proprio su Marilyn Monroe, la più iconica di tutti
Da qualche giorno al Museo Nazionale del Cinema, nella Mole Antonelliana di Torino, è esposta la Vespa usata da Nanni Moretti in
Caro diario. È andata a far compagnia alla sciarpa e al cappello di Federico Fellini, alla gonna di Cameron Diaz indossata in Gangs of New York, alla scrivania proveniente dall’ufficio di Goffredo Lombardo (il leggendario produttore della Titanus), alla testa in gesso di Meryl Streep usata per gli effetti speciali di La morte ti fa bella. Confesso che a uno che, come lo scrivente, il cinema lo fa di mestiere questa «sacralizzazione» museale suscita una sorta di divertita perplessità. Per noi, sul set, tutta quella roba non ha nulla di particolare, sono solo props, fabbisogni di scena. Di solito, alla fine delle riprese, le cose che si usano per fare un film — se non sono noleggiate o recuperate tramite sponsorizzazione — sono al centro di un’asta informale tra i componenti della troupe. Se si tratta di abiti, capita che vengano regalati agli attori che li hanno indossati o a qualcun altro. Props più ingombranti, particolari o costosi, possono finire nei magazzini delle produzioni o degli scenografi aspettando di essere riutilizzati su un altro film. Avendo per compagna di vita proprio una scenografa ho visto con i miei occhi pezzi di mobilio transitare in cinque o sei film diversi cambiando tinta, perdendo o acquistando un’anta, piedini, specchi. Insomma, c’è davvero poco pathos, in tutto questo.
Però succede che, se un film ha successo, le cose che ci sono dentro acquisiscano, per un sorta di fatale transitività, parte dell’aura dell’opera. Capitò anche a me quando, Dopo mezzanotte, da piccola produzione indipendente divenne un film di successo venduto in tutto il mondo. Fu proprio il Museo di Torino a chiedermi di vendergli l’armadio che stava nella stanza del personaggio interpretato da Giorgio Pasotti: un fondo di magazzino che Francesca Bocca, la scenografa, aveva recuperato per 15 euro al Balòn, il mercato delle pulci di Torino, e che aveva trasformato in una sorta di letto meccanico per una delle sequenze più popolari del film. Da due anni era finito nel mio garage, riciclato come ripostiglio per gli attrezzi...
Ma devo confessare che anche il cuore del professionista più indurito finisce per vibrare davanti a certi cimeli. Una declinazione particolare del collezionismo cinematografico è quella legata agli abiti degli attori o dei loro personaggi. Sempre a Torino, il 12 dicembre, apre un’installazione dedicata alla diva per eccellenza, Marilyn Monroe. Verranno esibite sedici paia di scarpe dell’attrice (comprate a un’asta dopo la sua morte dal Museo Salvatore Ferragamo e prestate per l’occasione). Con le calzature il Museo del Cinema espone anche altri memorabilia che fanno parte della sua collezione: un paio di scarpe con le iniziali MM sulla suola; il beauty case di
A qualcuno piace caldo; gioielli di argento messicano (orecchini e un bracciale con inciso Marilyn loves
Frank. Sinatra?) e il mitico bustino di pizzo nero che l’anno scorso — mi raccontano le archiviste — scandalizzò una signora che ritirò i figli dalla visita e scrisse una lettera indignata alla direzione ritenendo oscena l’esibizione di un capo di maglieria intima.
Questa sorta di innocente feticismo può far sorridere, ma ha una radice profonda nella psiche umana. Per secoli nelle chiese si sono adorati denti, schegge di ossa, mani mummificate, chiodi della croce e strumenti di martirio relativi alla vita dei santi — oggetti molto più macabri di quelli che si trovano in un pantheon pagano come quello di Torino (dove però si può ammirare la bara di Bela Lugosi...). La reliquia ha evidentemente un potere arcano in tutti i secoli, e crea cortocircuiti suggestivi se i due piani si sovrappongono, come quando a Beverly Hills vennero messe all’asta le tavole dei dieci comandamenti brandite da Charlton Heston-Mosè nel film di Ce- cil B. De Mille del 1956... Gli oggetti appartenuti a personaggi «divini» costituiscono una specie di «porta» che collega il loro mondo iperuranico alla nostra vita quotidiana. Come scriveva Edgar Morin nel vecchio ma sempre attuale Lo spirito del tempo: «Dopo che le star inaccessibili e sublimi del cinema sono discese sulla terra la vita dei divi partecipa alla vita quotidiana dei mortali. I nuovi divi sono calamitati sia sull’immaginario che sul reale: ideali inimitabili e al tempo stesso modelli imitabili; la loro duplice natura è analoga alla duplice natura teologica dell’eroe-dio della religione cristiana; divi e dive sono superumani nel ruolo che impersonano, umani nell’esistenza privata che vivono».
Quando il piano superumano e quello strettamente umano si incrociano, le «reliquie» possono costituire anche una risorsa molto pratica. Sei mesi fa Russell Crowe si è trovato coinvolto in un’aspra causa di divorzio con la ex-moglie. Ha perciò deciso di vendere in un’asta organizzata da Sotheby’s a Sydney una serie di oggetti che avevano a che fare con la sua carriera. Ha raccolto la bellezza di quasi quattro milioni di dollari. E se è plausibile pensare che il collezionista che ha comprato per 125 mila dollari l’armatura indossata dall’attore nella scena finale de Il gladiatore mostrerà orgoglioso il suo acquisto agli amici, che dire di quell’altro acquirente che si è aggiudicato il sospensorio da pugile portato da Crowe in
Cinderella Man (base d’asta 600 dollari, battuto alla fine per settemila...)?
A Torino, pochi mesi fa, c’è stata un’asta di materiali kubrickiani, proveniente dalla collezione dell’assistente del famoso regista, Emilio D’Alessandro, nel corso della quale è stato venduto per 19 mila euro, tra gli altri oggetti, il giaccone di Jack Nicholson in Shining. Ma è rimasto invenduto uno dei cappotti di Tom Cruise provenienti da Eyes Wide Shut. Come mai? Il fatto è che la Bolaffi, che ha curato l’asta, ha correttamente segnalato che il cappotto in questione, una volta finito il film, era stato utilizzato da D’Alessandro stesso nella sua funzione naturale, come capo d’abbigliamento personale. Ma — ahimè — così facendo l’ha inconsapevolmente «contaminato». Perciò, sono state acquistate anche semplici note della spesa di casa Kubrick (dal catalogo: «Interessante lotto composto da 10 biglietti autografi di Christiane e Stanley Kubrick riguardanti commissioni di carattere familiare. Alcune sono liste della spesa che comprendono gli acquisti di insalata, pane, salsicce ma anche del “Daily Mail”; in tre si parla del pesce. In uno, delizioso, la padrona di casa raccomanda di non comprare più ravanelli perché ce ne sono tanti nell’orto!»). Ma il cappotto è rimasto nell’armadio.