Corriere della Sera - La Lettura

Marte è il nostro destino Siamo fatti per volare

Beau Willimon è l’ideatore di «House of Cards». Ora ha lasciato gli intrighi della Casa Bianca per immaginare la spedizione che porterà l’uomo sul Pianeta Rosso. Per concludere che l’ambizione di un presidente o di un astronauta s’assomiglia­no

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

Beau Willimon ha creato House of Cards, la serie sugli intrighi del potere americano, e adesso con The First racconta lo sbarc o s u Mar te . C o m’è d i ve r s a l’America di House of Cards da quella di The First? « House of Cards — spiega a “la Lettura” — estremizza­va gli aspetti più bui delle prospettiv­e politiche statuniten­si, quelli che poi abbiamo visto realizzars­i. In The First l’obiettivo è un altro. Ci sono certamente ragioni politiche, oltre che scientific­he, per andare su Marte ma io volevo indagare sui costi umani, non solo finanziari, che una missione del genere comporta. Sul senso di disconness­ione tra un mestiere straordina­rio, quello dell’astronauta, e le vite banalissim­e che gli astronauti conducono quando poi tornano sulla Terra. E anche quel sentirsi infinitame­nte piccoli guardando la Terra dallo spazio».

Su Twitter lei è un noto fustigator­e di Donald Trump, che definisce «narcisista in capo». Pensa che andare su Marte sia tra le sue ambizioni?

«Francament­e non me ne frega nulla. Il mondo, per fortuna, non inizia né finisce con lui. È un incidente di percorso, guardiamo oltre. Con House of Cards ho esplorato l’abisso delle ambizioni umane, oggi voglio esplorarne le vette. Non volevo l’ennesima serie alla Black Mirror, distopica com’è la maggior parte di quelle ambientate nel futuro. Ho scritto The First per raccontare il meglio dell’umanità, ciò che ci spinge al limite, a sognare l’impossibil­e. È evidente che dev’esserci consenso politico per una spedizione su Marte, ma non è quello il punto. Questa è una storia universale, non solo americana. Potrebbe essere l’Everest. È soprattutt­o una metafora».

Per la scienza è la sfida di tutte le sfide. Tutte le agenzie spaziali del mondo, pubbliche e private, dalla Nasa all’Esa, da SpaceX di Elon Musk a Blue Origin di Jeff Bezos, guardano al Pianeta Rosso, progettand­o viaggi e colonizzaz­ioni. Entro 15 anni, concorda la comunità scientific­a, la conquista di Marte sarà una realtà, ed è proprio nel 2033 che è ambientata The First, che vedremo in Italia su Timvision dal 19 dicembre. Due serie, House of Cards e The First, che non potrebbero sembrare più diverse, anche stilistica­mente, ma che invece hanno tanto in comune. Con Sean Penn alla sua prima avventura televisiva e Natascha McElhone di Designated Survivor nel ruolo della numero uno di una società aerospazia­le, The First non è il solito pasticcio intergalat­tico. Al netto di realtà aumentata e auto che si guidano da sole (com’è possibile che sia la normalità fra 15 anni?), l’intera prima stagione è ambientata sulla Terra, tra le sfide politiche, finanziari­e e tecnologic­he che la missione deve affrontare prima del lancio. «Sarebbe stato molto più facile — aggiunge Willimon — partire con la spedizione vera e propria. Dopotutto è ciò che il pubblico si aspetta. Ma io volevo concentrar­e l’attenzione altrove. Sulle difficoltà che una missione su Marte implica, che non sono solo economiche, ma sono anche, per esempio, lo scetticism­o di quanti si chiedono se un’impresa del genere valga il prezzo e i rischi che comporta. Se The First fosse stato un prodotto di fantascien­za tradiziona­le, allora quanti si oppongono alla missione su Marte sarebbero stati i “cattivi” della storia. In questa serie, invece, hanno le loro ragioni. “Non potremmo utilizzare tutti quei soldi per migliorare la vita di tante persone in difficoltà?”. È un’obiezione giusta».

Con Willimon, durante l’intervista con «la Lettura», c’è il produttore esecutivo Jordan Tappis, e il dibattito sembra riproporsi. Tappis, incalzato, chiosa infatti che la conquista di Marte «non è esattament­e necessaria», e Willimon lo interrompe con veemenza: «Scusa, ma non sono affatto d’accordo. Noi dobbiamo andare su Marte». Perché, Willimon? «Perché la vita delle persone si migliora anche ispirandol­e. Mostrando loro cosa l’umanità è in grado di fare. Al netto dei benefici materiali e scientific­i, l’esplorazio­ne di mondi sconosciut­i nasce dal desiderio di confrontar­ci con l’ignoto. Marte è il nostro destino. The First non è la storia del primo uomo su Marte, è la storia della specie umana che è stata sempre guidata, ol- tre che dalla necessità, dalla curiosità. Marte è solo il passo successivo, la scienza è immaginazi­one. Abbiamo girato in alcune strutture della Nasa, con la consulenza di veri astronauti, tra cui il primo canadese a muoversi nello spazio. “Immaginazi­one” era la parola ricorrente nei loro discorsi. The First è l’ottimismo della frontiera, desiderio di arrivare dove nessuno è mai giunto prima, per dirla alla Star Trek. Allo stesso tempo, non volevo una serie di fantascien­za, ma di fatti. O almeno di ipotesi molto informate».

Mentre parliamo, la sonda InSight sbarca su Marte. Fantasia — pardon, ipotesi informate — e realtà si fondono. Ma se poi non andasse come ha previsto lei?

«Non importa. Dopotutto oggi guardiamo ancora 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick sebbene appaia terribilme­nte datato. Ma lo guardiamo lo stesso, perché quel film, al di là delle tecnologie descritte e di quelle utilizzate, racconta una storia molto più profonda».

Nella serie, la missione è organizzat­a da una società del settore privato sotto contratto con la Nasa. L’apporto del privato sarà fondamenta­le per Marte e altre spedizioni?

«È certamente un accelerato­re, anche per l’entusiasmo che il privato è in grado di creare attorno a sé, pensiamo a Elon Musk. Anche se i costi di uno sbarco su Marte sono enormi, e nessuna missione privata ne avrebbe, io credo, i capitali. In

The First, i fondi arrivano dalla Nasa, quindi dal governo Usa e dai contribuen­ti. Si calcola che una missione su Marte potrebbe essere realizzata con 75 miliardi di dollari in 10 anni. Una cifra enorme, ma il budget della Nasa è di una ventina di miliardi l’anno, quello della Difesa Usa di oltre 700. La tecnologia c’è già, ma come per tutte le grandi imprese occorre la volontà popolare, e alcuni visionari che la portino a termine».

La conquista dello spazio è un’ambizione più repubblica­na o più democratic­a?

«È apartitica. Negli Usa era iniziata con Eisenhower, che era un repubblica­no, continuata con Kennedy e Johnson, entrambi democratic­i, e poi con Nixon, anche lui repubblica­no. Allora, la corsa allo spazio era trainata dalla rivalità Usa-Urss. Oggi, oltre all’ingresso dei privati ci sono le aspirazion­i di nuove grandi potenze, come la Cina. E anche per le risorse finanziari­e necessarie è probabile che ad andare su Marte sarà una coalizione internazio­nale. Anche se la Nasa, vista la sua esperienza, avrà comunque un ruolo cruciale».

Proprio in quanto ad ambizione, il presidente Underwood di «House of Cards» (Kevin Spacey) e il comandante Hagerty di «The First» (Sean Penn) sono molto vicini.

«Vero. In realtà scriviamo sempre la stessa storia, solo in modo diverso. Hagerty, a differenza di Underwood, è un eroe, però è anche disposto a tutto. Rischiare la vita per l’impresa, uscire dalla

comfort zone. Ogni astronauta che voglia mettere piede su Marte o altrove deve fare i conti con il rischio di non tornare indietro. Che vuol dire non vedere più i propri cari, non poter prendersi cura di loro. Ne vale la pena? Per le famiglie è molto difficile, però gli astronauti lo fanno». Perché?

«L’idea di esplorare lo spazio è molto nobile, ma anche molto egoista. Tutti i grandi esplorator­i hanno un posto nella storia ma qual è stato il costo in termini di vite umane?».

In Italia il 19 dicembre «Con Underwood ho esplorato l’abisso delle ambizioni umane, oggi voglio esplorarne le vette. Non volevo una distopia»

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