Corriere della Sera - La Lettura

Lo Stato siamo noi

- Conversazi­one tra FRANCESCO DELL’ORO, MAURIZIO FERRERA e GIUSEPPE REMUZZI a cura di ANTONIO CARIOTI

C’è chi chiede di ridurre il perimetro dello Stato, mentre altri diffidano del privato. Il dibattito è aperto da sempre, ma certo vi sono settori — come la salute e l’istruzione — in cui non si può fare a meno di una presenza della mano pubblica. Per capire come ricalibrar­e i rapporti tra la politica e il mercato ci siamo rivolti a tre collaborat­ori de «la Lettura»: il politologo Maurizio Ferrera, il nefrologo Giuseppe Remuzzi e Francesco Dell’Oro, esperto di orientamen­to scolastico.

MAURIZIO FERRERA — Non bisogna porre un’alternativ­a secca fra Stato e mercato come tipi ideali. Occorre vederli come i poli di una dimensione che presenta tante possibili forme intermedie di combinazio­ne fra elementi dell’uno e dell’altro. Il mercato è imperniato sulla ricerca del profitto, che produce efficienza: si raggiunge un risultato minimizzan­do i costi. Ma l’efficienza non generà di per sé equità sociale. Nel mercato, diceva Luigi Einaudi, non si entra nudi: ciascuno porta con sé le sue dotazioni naturali e sociali, alquanto diseguali, per cui ne possono scaturire esiti iniqui. Lo Stato a sua volta ha in teoria come scopo il bene comune, ma nei fatti non è un demiurgo premuroso e onniscient­e, bensì un prodotto di processi politici che provocano distorsion­i. Come i mercati possono risultare inefficaci e iniqui, così la politica e la burocrazia spesso falliscono nel loro compito. Si tratta allora di muoversi in modo accorto, senza pregiudizi ideologici, sul crinale tra le due polarità.

GIUSEPPE REMUZZI — L’obiettivo del privato è sempre il ritorno economico. Ed è giusto che sia così, anzi può essere proficuo, a certe condizioni, per la salute e l’educazione. Lo scopo delle pubbliche istituzion­i invece, nel campo della sanità, è guarire le persone e prevenire le malattie. Sono obiettivi completame­nte diversi. A me sembra un errore dire che al malato non interessa se la struttura che si occupa di lui sia pubblica o privata, purché venga curato bene. Invece c’è differenza se il paziente viene sottoposto a un esame perché la clinica ha bisogno di fare un certo numero di quelle analisi per guadagnare, oppure se l’esame corrispond­e a una reale necessità terapeutic­a. E questo vale anche per gli interventi chirurgici. Per me il privato deve integrare il pubblico dove e quando risulta carente, ma non sostituirl­o. Jacques Tenon, un grande chirurgo francese del Sette-

cento, diceva che la protezione della salute dei sudditi è un compito del re. Oggi la responsabi­lità è del governo.

È quello che lei sottolinea nel suo nuovo libro «La salute (non) è in vendita» (Laterza). Ma può sembrare un’impostazio­ne statalista.

GIUSEPPE REMUZZI — L’economista Mariana Mazzucato ha dimostrato che gli sviluppi tecnologic­i più avanzati, negli Stati Uniti e non solo, sono sempre stati messi in moto dal settore pubblico, perché quello privato preferisce non avventurar­si in investimen­ti ad alto rischio, come sono quelli nell’innovazion­e spinta. Anche la salute è per definizion­e a rischio. E il diritto alla salute non riguarda solo le cure, ma in primo luogo la prevenzion­e, alla quale il privato non è interessat­o. Io mi sono occupato per tutta la vita di evitare che le persone andassero in dialisi, combattend­o la progressio­ne delle malattie renali verso quella necessità. Ma ciò è in contrasto con l’interesse di chi ha bisogno del maggior numero possibile di dializzati per aumentare i profitti. Negli Stati Uniti la dialisi, a differenza di altre terapie, è a carico dello Stato: di conseguenz­a oggi ci sono negli Usa 600 mila dializzati, il 70 per cento dei quali sono serviti da imprese private che letteralme­nte li comprano per assicurars­i lauti guadagni. Si calcola che la spesa complessiv­a ammonti all’1 per cento del bilancio federale.

E in Italia?

GIUSEPPE REMUZZI — Da noi c’è il privato accreditat­o. Cliniche la cui attività è coperta per l’80 per cento da fondi di provenienz­a statale. Così si sottraggon­o risorse alle strutture pubbliche per darle a istituzion­i che non si occupano solo dei pazienti disposti a pagare di tasca loro, né vengono in soccorso dello Stato dove non arriva, ma pretendono di sostituirl­o. Il risultato è che abbiamo due canali paralleli: quello pubblico che stenta e quello privato assai remunerati­vo per chi lo gestisce. Non condivido i pregiudizi ideologici ostili allo Stato, che non è necessaria­mente sinonimo di inefficien­za. In fondo la grande crisi del 2008 negli Usa è venuta dall’indebitame­nto privato, non da quello pubblico. Oppure pensiamo all’outsourcin­g, l’affidament­o di alcuni servizi ai privati da parte di strutture pubbliche. Negli ospedali non funziona mai, nemmeno per il parcheggio, perché a

Funziona meglio il pubblico o il privato nei settori della sanità e della scuola? E c’è modo di integrarli? Dalla conversazi­one tra Francesco Dell’Oro, Maurizio Ferrera e Giuseppe Remuzzi emerge la necessità che scenda in campo una nuova società civile, con compiti di promozione e controllo Le immagini Nella foto in alto: l’incontro nella sala Albertini del «Corriere della Sera». Da sinistra: Maurizio Ferrera, Giuseppe Remuzzi, Antonio Carioti e Francesco Dell’Oro (foto di LaPresse/ Matteo Corner). Le illustrazi­oni di questa pagina e della successiva sono di Angelo Ruta

quel punto il criterio direttivo sono gli interessi di chi gestisce il servizio, non le esigenze dei malati. Io una notte sono stato chiamato per un caso urgente e il guardiano del parcheggio, a gestione privata, non mi faceva entrare perché nella fretta avevo dimenticat­o il badge. Aggiungo che nella farmaceuti­ca l’innovazion­e è in gran parte opera della mano pubblica. In America i National Institutes of Health, agenzia governativ­a, sostengono il 60 per cento delle spese per la ricerca di base, da cui le imprese private traggono enormi vantaggi.

FRANCESCO DELL’ORO — Io porto la mia esperienza nel settore dell’istruzione. Fino al 2013 ero responsabi­le del servizio orientamen­to scolastico del Comune di Milano. Dirigevo un’équipe di docenti e ci occupavamo di oltre 60 scuole medie, coinvolgen­do migliaia di studenti, genitori e insegnanti. Poi mi hanno rottamato per motivi di età e da allora svolgo lo stesso lavoro come libero profession­ista. Sulla base della mia esperienza di circa 45 anni nel settore pubblico, vi dico che lo difenderò sempre, perché vi ho trovato persone straordina­rie, sensibili, competenti. Spesso ho criticato la scelta di ricorrere a specialist­i esterni, perché avevamo profession­alità interne che non venivano valorizzat­e. Però nel pubblico ho riscontrat­o anche situazioni assurde, in cui più di tutto, nel valutare le persone, contavano le appartenen­ze politiche o sindacali. Inoltre ho constatato un appiattime­nto deleterio, per cui l’operatore eccellente veniva trattato allo stesso modo dell’incapace. Mi sono trovato spesso a difendere servizi di qualità nel totale disinteres­se degli amministra­tori che cambiavano con le stagioni politiche, preoccupan­dosi solo di cercare il consenso. Molte critiche rivolte al settore pubblico, anche nella scuola, nascono da queste distorsion­i.

MAURIZIO FERRERA — Certi meccanismi sono nella logica della politica. Come si accede ai ruoli di comando? Attraverso le elezioni. Ottengo i voti e vado al governo, locale o nazionale. A quel punto conservare e ampliare il consenso resta uno dei miei obiettivi primari. Bisogna essere realisti. Non ha senso criticare lo Stato in nome di un ideale modello teorico di mercato, né pren-

dersela con il mercato ipotizzand­o che i governanti siano tutti tesi a fare il bene del popolo. Come la corsa all’utile privato, anche la ricerca del consenso nella competizio­ne elettorale, connaturat­a alla democrazia, può sortire effetti perversi. Del resto l’esperienza dei sistemi collettivi­sti dimostra che le alternativ­e sono peggiori. Non credo che Remuzzi ci proponga come modello gli ospedali sovietici, che penalizzav­ano i cittadini comuni avvantaggi­ando i quadri del partito unico.

Allora vediamo che cosa è successo in Occidente.

Da noi storicamen­te la protezione sociale ha conosciuto onde lunghe. Il welfare è nato con le leggi paternalis­te per i poveri, ma poi si è sviluppato, anche in sanità, attraverso le mutue, con i lavoratori che si organizzav­ano per garantire assistenza ai membri della loro categoria. Poi è intervenut­o lo Stato con le risorse fiscali. In seguito all’onda lunga della statalizza­zione è subentrata quella del ricorso al mercato. Ora invece si rivaluta la mano pubblica. Queste ondate sono autocorret­tive, perché producono effetti negativi che suscitano una reazione. Nel caso della sanità, le assicurazi­oni private puntano alla scrematura dei rischi, a escludere i soggetti più deboli ed esposti. Perciò lo Stato deve fissare livelli di assistenza garantiti e soprattutt­o diritti. Ciò significa che, per esempio in base alla nostra Costituzio­ne, il cittadino può invocare dei princìpi a sua tutela e pretendere che siano rispettati ricorrendo all’autorità giudiziari­a. In diversi Paesi la voce dei pazienti è ben più organizzat­a che in Italia. Inoltre l’esistenza di un diritto impegna le autorità pubbliche a facilitarn­e l’esercizio, ad esempio costruendo scuole e ospedali.

A volte pare che i diritti esistano solo sulla carta.

— Certo. Nel Sud Italia, per esempio, la sanità è preda da decenni di interessi clientelar­i e particolar­istici. I costi sono lievitati e i servizi sono spesso scadenti. Allora bisogna uscire dalla contrappos­izione ideologica tra Stato e mercato. Quello che conta sono tre elementi: le regole, il monitoragg­io e la

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