Corriere della Sera - La Lettura
Lo Stato siamo noi
C’è chi chiede di ridurre il perimetro dello Stato, mentre altri diffidano del privato. Il dibattito è aperto da sempre, ma certo vi sono settori — come la salute e l’istruzione — in cui non si può fare a meno di una presenza della mano pubblica. Per capire come ricalibrare i rapporti tra la politica e il mercato ci siamo rivolti a tre collaboratori de «la Lettura»: il politologo Maurizio Ferrera, il nefrologo Giuseppe Remuzzi e Francesco Dell’Oro, esperto di orientamento scolastico.
MAURIZIO FERRERA — Non bisogna porre un’alternativa secca fra Stato e mercato come tipi ideali. Occorre vederli come i poli di una dimensione che presenta tante possibili forme intermedie di combinazione fra elementi dell’uno e dell’altro. Il mercato è imperniato sulla ricerca del profitto, che produce efficienza: si raggiunge un risultato minimizzando i costi. Ma l’efficienza non generà di per sé equità sociale. Nel mercato, diceva Luigi Einaudi, non si entra nudi: ciascuno porta con sé le sue dotazioni naturali e sociali, alquanto diseguali, per cui ne possono scaturire esiti iniqui. Lo Stato a sua volta ha in teoria come scopo il bene comune, ma nei fatti non è un demiurgo premuroso e onnisciente, bensì un prodotto di processi politici che provocano distorsioni. Come i mercati possono risultare inefficaci e iniqui, così la politica e la burocrazia spesso falliscono nel loro compito. Si tratta allora di muoversi in modo accorto, senza pregiudizi ideologici, sul crinale tra le due polarità.
GIUSEPPE REMUZZI — L’obiettivo del privato è sempre il ritorno economico. Ed è giusto che sia così, anzi può essere proficuo, a certe condizioni, per la salute e l’educazione. Lo scopo delle pubbliche istituzioni invece, nel campo della sanità, è guarire le persone e prevenire le malattie. Sono obiettivi completamente diversi. A me sembra un errore dire che al malato non interessa se la struttura che si occupa di lui sia pubblica o privata, purché venga curato bene. Invece c’è differenza se il paziente viene sottoposto a un esame perché la clinica ha bisogno di fare un certo numero di quelle analisi per guadagnare, oppure se l’esame corrisponde a una reale necessità terapeutica. E questo vale anche per gli interventi chirurgici. Per me il privato deve integrare il pubblico dove e quando risulta carente, ma non sostituirlo. Jacques Tenon, un grande chirurgo francese del Sette-
cento, diceva che la protezione della salute dei sudditi è un compito del re. Oggi la responsabilità è del governo.
È quello che lei sottolinea nel suo nuovo libro «La salute (non) è in vendita» (Laterza). Ma può sembrare un’impostazione statalista.
GIUSEPPE REMUZZI — L’economista Mariana Mazzucato ha dimostrato che gli sviluppi tecnologici più avanzati, negli Stati Uniti e non solo, sono sempre stati messi in moto dal settore pubblico, perché quello privato preferisce non avventurarsi in investimenti ad alto rischio, come sono quelli nell’innovazione spinta. Anche la salute è per definizione a rischio. E il diritto alla salute non riguarda solo le cure, ma in primo luogo la prevenzione, alla quale il privato non è interessato. Io mi sono occupato per tutta la vita di evitare che le persone andassero in dialisi, combattendo la progressione delle malattie renali verso quella necessità. Ma ciò è in contrasto con l’interesse di chi ha bisogno del maggior numero possibile di dializzati per aumentare i profitti. Negli Stati Uniti la dialisi, a differenza di altre terapie, è a carico dello Stato: di conseguenza oggi ci sono negli Usa 600 mila dializzati, il 70 per cento dei quali sono serviti da imprese private che letteralmente li comprano per assicurarsi lauti guadagni. Si calcola che la spesa complessiva ammonti all’1 per cento del bilancio federale.
E in Italia?
GIUSEPPE REMUZZI — Da noi c’è il privato accreditato. Cliniche la cui attività è coperta per l’80 per cento da fondi di provenienza statale. Così si sottraggono risorse alle strutture pubbliche per darle a istituzioni che non si occupano solo dei pazienti disposti a pagare di tasca loro, né vengono in soccorso dello Stato dove non arriva, ma pretendono di sostituirlo. Il risultato è che abbiamo due canali paralleli: quello pubblico che stenta e quello privato assai remunerativo per chi lo gestisce. Non condivido i pregiudizi ideologici ostili allo Stato, che non è necessariamente sinonimo di inefficienza. In fondo la grande crisi del 2008 negli Usa è venuta dall’indebitamento privato, non da quello pubblico. Oppure pensiamo all’outsourcing, l’affidamento di alcuni servizi ai privati da parte di strutture pubbliche. Negli ospedali non funziona mai, nemmeno per il parcheggio, perché a
Funziona meglio il pubblico o il privato nei settori della sanità e della scuola? E c’è modo di integrarli? Dalla conversazione tra Francesco Dell’Oro, Maurizio Ferrera e Giuseppe Remuzzi emerge la necessità che scenda in campo una nuova società civile, con compiti di promozione e controllo Le immagini Nella foto in alto: l’incontro nella sala Albertini del «Corriere della Sera». Da sinistra: Maurizio Ferrera, Giuseppe Remuzzi, Antonio Carioti e Francesco Dell’Oro (foto di LaPresse/ Matteo Corner). Le illustrazioni di questa pagina e della successiva sono di Angelo Ruta
quel punto il criterio direttivo sono gli interessi di chi gestisce il servizio, non le esigenze dei malati. Io una notte sono stato chiamato per un caso urgente e il guardiano del parcheggio, a gestione privata, non mi faceva entrare perché nella fretta avevo dimenticato il badge. Aggiungo che nella farmaceutica l’innovazione è in gran parte opera della mano pubblica. In America i National Institutes of Health, agenzia governativa, sostengono il 60 per cento delle spese per la ricerca di base, da cui le imprese private traggono enormi vantaggi.
FRANCESCO DELL’ORO — Io porto la mia esperienza nel settore dell’istruzione. Fino al 2013 ero responsabile del servizio orientamento scolastico del Comune di Milano. Dirigevo un’équipe di docenti e ci occupavamo di oltre 60 scuole medie, coinvolgendo migliaia di studenti, genitori e insegnanti. Poi mi hanno rottamato per motivi di età e da allora svolgo lo stesso lavoro come libero professionista. Sulla base della mia esperienza di circa 45 anni nel settore pubblico, vi dico che lo difenderò sempre, perché vi ho trovato persone straordinarie, sensibili, competenti. Spesso ho criticato la scelta di ricorrere a specialisti esterni, perché avevamo professionalità interne che non venivano valorizzate. Però nel pubblico ho riscontrato anche situazioni assurde, in cui più di tutto, nel valutare le persone, contavano le appartenenze politiche o sindacali. Inoltre ho constatato un appiattimento deleterio, per cui l’operatore eccellente veniva trattato allo stesso modo dell’incapace. Mi sono trovato spesso a difendere servizi di qualità nel totale disinteresse degli amministratori che cambiavano con le stagioni politiche, preoccupandosi solo di cercare il consenso. Molte critiche rivolte al settore pubblico, anche nella scuola, nascono da queste distorsioni.
MAURIZIO FERRERA — Certi meccanismi sono nella logica della politica. Come si accede ai ruoli di comando? Attraverso le elezioni. Ottengo i voti e vado al governo, locale o nazionale. A quel punto conservare e ampliare il consenso resta uno dei miei obiettivi primari. Bisogna essere realisti. Non ha senso criticare lo Stato in nome di un ideale modello teorico di mercato, né pren-
dersela con il mercato ipotizzando che i governanti siano tutti tesi a fare il bene del popolo. Come la corsa all’utile privato, anche la ricerca del consenso nella competizione elettorale, connaturata alla democrazia, può sortire effetti perversi. Del resto l’esperienza dei sistemi collettivisti dimostra che le alternative sono peggiori. Non credo che Remuzzi ci proponga come modello gli ospedali sovietici, che penalizzavano i cittadini comuni avvantaggiando i quadri del partito unico.
Allora vediamo che cosa è successo in Occidente.
Da noi storicamente la protezione sociale ha conosciuto onde lunghe. Il welfare è nato con le leggi paternaliste per i poveri, ma poi si è sviluppato, anche in sanità, attraverso le mutue, con i lavoratori che si organizzavano per garantire assistenza ai membri della loro categoria. Poi è intervenuto lo Stato con le risorse fiscali. In seguito all’onda lunga della statalizzazione è subentrata quella del ricorso al mercato. Ora invece si rivaluta la mano pubblica. Queste ondate sono autocorrettive, perché producono effetti negativi che suscitano una reazione. Nel caso della sanità, le assicurazioni private puntano alla scrematura dei rischi, a escludere i soggetti più deboli ed esposti. Perciò lo Stato deve fissare livelli di assistenza garantiti e soprattutto diritti. Ciò significa che, per esempio in base alla nostra Costituzione, il cittadino può invocare dei princìpi a sua tutela e pretendere che siano rispettati ricorrendo all’autorità giudiziaria. In diversi Paesi la voce dei pazienti è ben più organizzata che in Italia. Inoltre l’esistenza di un diritto impegna le autorità pubbliche a facilitarne l’esercizio, ad esempio costruendo scuole e ospedali.
A volte pare che i diritti esistano solo sulla carta.
— Certo. Nel Sud Italia, per esempio, la sanità è preda da decenni di interessi clientelari e particolaristici. I costi sono lievitati e i servizi sono spesso scadenti. Allora bisogna uscire dalla contrapposizione ideologica tra Stato e mercato. Quello che conta sono tre elementi: le regole, il monitoraggio e la