Corriere della Sera - La Lettura

Paradossi dell’odio social: fissato con le regole, ignora le buone maniere

- Di VINCENZO SANTARCANG­ELO

Angela Nagle è entrata nel dibattito sulla violenza in rete, identifica­ndone l’origine — anche — in una questione di «stile»

Forse Angela Nagle non si sarebbe mai aspettata che il suo primo libro, pubblicato in Gran Bretagna nel 2017, l’avrebbe consacrata in breve tempo come una delle voci più autorevoli della nuova sinistra e un’autorità sul controvers­o tema della politica sul web. Di certo Contro la vostra realtà è un’imponente cartografi­a di un fenomeno intricato come una ragnatela e pericoloso come il morso di una tarantola, una guerra apparentem­ente innocua, combattuta a colpi di meme, tempeste di tweet e troll che inneggiano al politicame­nte scorretto.

«La Lettura» ha intervista­to Angela Nagle in occasione della traduzione italiana di Kill All Normies.

Chi sono i «normies», che questa massa di anonimi blogger, troll e hacker vorrebbe far fuori, stando al titolo originale del suo libro?

«Normies è un termine che ha iniziato a circolare online per descrivere tutti coloro che non sono in grado di comprender­e le sottocultu­re nate su internet, i loro linguaggi, la loro estetica, i loro riferiment­i culturali, le loro idee politiche. L’espression­e Kill All Normies non è mai stata presa alla lettera dalle masse anonime che compongono queste sottocultu­re, anche se non sono mancati episodi di violenza reale, come spiego nel libro: si tratta più che altro di una presa in giro, politicame­nte connotata, del celebre slogan Kill all hippies ».

Lei s c r i ve c he l ’ascesa di Donald Trump e dell’«alt-right» (la destra «alternativ­a») negli Stati Uniti, più che un segno del ritorno dei conservato­ri, è funzione dello stile delle nuove destre, uno stile contraddis­tinto dall’«assoluta egemonia della cultura anticonfor­mista, dell’espression­e di sé, della trasgressi­one e dell’irriverenz­a fine a sé stessa». Tutto nasce da questioni estetiche e stilistich­e, dunque?

«Quando scrivevo queste parole, due anni fa, le figure più rilevanti della guerra che si combatteva online erano personaggi che è molto difficile prendere sul serio da un punto di vista politico: Milo Yiannopoul­os (ex redattore capo di “Breitbart News”, ha attirato l’attenzione dei media internazio­nali per le sue posizioni controvers­e e, trasferito­si negli Stati Uniti, è divenuto sostenitor­e di Trump durante la campagna presidenzi­ale del 2016, ndr) e Gavin McInnes, cofondator­e ed ex redattore della rivista “Vice”. In un primo momento, la guerra si giocava interament­e su un piano estetico. Se fossero stati interpella­ti su questioni politiche serie, avrebbero risposto che la loro era solo ironia».

Erano più intenti a creare meme che a fare politica?

«Senz’altro. Ma la cosa, paradossal­mente, ha funzionato. I media si sono rivelati più incuriosit­i dalla loro sensibilit­à estetica piuttosto che dalle idee politiche che si nascondeva­no dietro ai meme che intanto si diffondeva­no online».

E poi che cos’è successo?

«Negli anni che hanno portato all’ascesa di questo caotico “movimento” è successo che su canali come 4Chan (sito web imageboard, ovvero basato sulla pubblicazi­one di immagini da parte degli utenti, ndr) è emersa una sottocultu­ra che non era esplicitam­ente politica ma che sembrava avere una sola missione: offendere e scioccare, ora servendosi di un riferiment­o a Hitler, ora mostrando un’immagine di porno estremo».

Lei ritiene che le dinamiche alla base di questo movimento non siano prerogativ­a della cosiddetta «alt-right» ma che si siano riproposte in maniera uguale e contraria a sinistra?

«Per descrivere che cosa succedeva all’estremo opposto mi è sembrato opportuno utilizzare l’esempio della piattaform­a di microblogg­ing e social networking Tumblr. Su Tumblr era tutto un parlare di rivoluzion­e sessuale e un architetta­re nuove strategie per condurre la cultura politica della sinistra a un livello successivo. Tutto questo, però, nascondeva in realtà toni da predica e da autoflagel­lazione morale, insieme a forme troppo teatrali di falsa sensibilit­à, il tutto sorvegliat­o da un’operazione di vera polizia linguistic­a».

Tra i due estremi, lei sostiene, si è venuta a creare una relazione di tipo simbiotico. L’uno non esiste in assenza dell’altro.

«Entrambi gli estremi usavano lo spettro dell’opposta forza culturale emergente come spinta a essere ancora più estremi, più radicali. Il lato della political correctnes­s della sinistra si convinceva semp r e d i p i ù d e l f a t t o c h e r a z z i s mo e misoginia fossero i mali da estirpare con tutti i mezzi possibili o che il fascismo sarebbe riemerso nel mondo reale proprio perché intanto questi movimenti protofasci­sti invadevano il regno del virtuale. Dall’altro lato, si immaginava l’orribile futuro a cui si sarebbe andati incontro se non ci si fosse opposti con forza all’affermarsi di temi come il transgende­rismo, il femminismo, le restrizion­i imposte da un punto di vista linguistic­o e, più tardi, la degenerazi­one razziale».

Esiste un modo per impedire che le masse di anonimi che hanno sconfitto online il «politicall­y correct», e insieme a esso le norme del comune buon senso, conquistin­o il mondo reale?

«No. Questo libro è uscito in Gran Bretagna due anni fa e da allora molto è cambiato. Mi sembra chiaro che negli Stati Uniti il liberalism­o stia collassand­o e nessuno mi sembra disposto a compromess­i, né a destra né a sinistra. La sinistra americana ha addirittur­a alzato la posta sul tema della correctnes­s e si è radicalizz­ata rispetto a tematiche relative all’immigrazio­ne, la politica sessuale, eccetera. Subito dopo l’elezione di Trump, sembravano intraveder­si i segnali di una sinistra che avrebbe potuto rappresent­are una reale alternativ­a al liberalism­o ma ora non ve n’è più traccia».

Lei parla dell’importanza delle buone maniere…

«Certo, credo che le buone maniere siano davvero fondamenta­li all’interno del processo di civilizzaz­ione. Norbert Elias ha scritto (in Potere e civiltà, ndr), riprendend­o Freud, che si sono sviluppate nei secoli come misura di autocontro­llo necessaria per l’esistenza stessa della civiltà. Mi è sembrato paradossal­e che tutto questo movimento online, che non faceva che lamentarsi della degenerazi­one dei costumi, lo facesse con modi così scioccanti e disgustosi, e allo stesso tempo che pretendess­e di essere radicale e fuori dalle regole pur essendo ossessiona­to dal rispetto delle regole e dei codici del linguaggio».

Qual è la sua diagnosi rispetto all’Europa?

«Credo che l’Europa abbia una tradizione da cui l’estrema destra può attingere e nella quale può inserirsi. Ci sono le basi per riproporre politiche fondate su “sangue e suolo”, perché ci sono radicament­i territoria­li ed etnici contrappos­ti che negli Stati Uniti non esistono. Detto ciò, le persone più consapevol­i di questo movimento sono state influenzat­e dalla nuova destra francese del Front National (che quest’anno si è ridenomina­to Rassemblem­ent National, ndr) da cui hanno senza dubbio preso qualcosa».

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