Corriere della Sera - La Lettura
L’Ottocento artigiano anticipò il made in Italy
Sarti, mobilieri, gioiellieri, ebanisti. A Milano, a Napoli, in Toscana: le nostre eccellenze che seppero coniugare al meglio tradizione e innovazione
Capire come si evolve la realtà economica non è mai facile. È forse per questo che i modelli storiografici hanno tanto successo: ci aiutano a fare ordine in situazioni complesse, a vedere una successione razionale in una serie di mutamenti contradditori, a immaginare i futuri sviluppi. Così è stato per il modello di ispirazione inglese della grande industria, che ha dominato per decenni le interpretazioni dello sviluppo. Esso vedeva un graduale, ma irrevocabile passaggio da un’economia preindustriale, basata su piccoli opifici e botteghe artigianali, a un’economia moderna che ruotava intorno alla fabbrica. Una nuova realtà, quest’ultima, caratterizzata da innovazione tecnica, organizzazione razionale, grandi volumi, forza lavoro ben inquadrata in specifiche mansioni. E mentre decadevano le figure dei proprietari terrieri e dei mercanti, emergevano sulla scena nuovi protagonisti: gli imprenditori, veri «spiriti animali» guidati da un formidabile impulso creativo (secondo la definizione di John M. Keynes), e gli operai, altrettanto centrali nel processo produttivo e attivi nella conquista di diritti e tutele.
Peccato che per l’Italia questo modello funzioni poco. Intanto, non vi fu mai un vero predominio della grande industria, per cui la produzione fu spesso il risultato di una piccola imprenditoria diffusa. Poi mancò la concentrazione in pochi comparti trainanti, come ad esempio la meccanica e il tessile, e perdurò nel tempo una situazione di equilibrio tra settori moderni e settori tradizionali. Infine, la condizione del lavoro non conobbe miglioramenti lenti e continui, ma vide convivere fianco a fianco situazioni del tutto diverse. È questa una delle conclusioni a cui si arriva dopo la lettura dell’interessante volume L’Ottocento. Tradizione e modernità, a cura di Germano Maifreda, ultima parte dell’opera Storia del lavoro in Italia, diretta da Fabio Fabbri (Castelvecchi).
Ultimo contributo, ma non meno importante, se è vero che proprio nell’Ottocento prende avvio il processo di industrializzazione, con importanti conseguenze sull’organizzazione del lavoro. Lo studio copre un po’ tutti gli aspetti di questa trasformazione, dall’analisi dei protagonisti nei diversi settori economici alle trasformazioni dell’impresa sulle ceneri delle antiche corporazioni, fino ai vari aspetti legati alla tutela del lavoro. Assunto centrale è il percorso non lineare seguito da un’economia arretrata come quella italiana verso uno sviluppo che lasciò ampio spazio al «settore informale», e risultò difforme sia tra i vari settori produttivi sia tra le aree geografiche, anche a causa della frammentazione politica dell’Italia.
Un buon esempio di questo percorso viene dal capitolo dedicato all’artigianato da Giovanna Tonelli. È un settore che in teoria avrebbe dovuto risentire negativamente delle spinte verso l’industrializzazione e il modello di fabbrica, vista anche la ristrettezza del mercato dei consumatori, tanto che la produzione era indirizzata principalmente alle corti e alla ristretta élite che si poteva permettere articoli di lusso. Come se non bastasse, le art i e corporazioni er a no s t a te a boli te relativamente tardi in molti Stati: se il regime asburgico lo aveva fatto a Milano già a fine Settecento, il Regno delle Due Sicilie vi arrivò negli anni 1821-1836 e il Piemonte addirittura nel 1844.
Eppure il panorama delle attività artigianali, un po’ in tutta Italia, era vivace e affascinante, come racconta l’autrice. Il
principale settore era quello dell’abbigliamento, vanto della penisola da secoli, dove operava un piccolo esercito di cucitrici e apprendiste, a fianco di sarti rinomati. Come, ad esempio, nella Milano di inizio Ottocento, Madame Auguste, che realizzava capi raffinatissimi per la clientela più esigente (anche se si diceva che forse la signora non era veramente francese, e si faceva pubblicità richiamando nel nome la moda di Parigi). Oppure il famoso sarto Francesco Maggioni, che aveva bottega in piazza Duomo e aveva avuto tanto successo che a casa sua serviva i pasti con posate d’argento, come i signori.
Altro settore di eccellenza era quello del mobilio, caratterizzato da una notevole complessità lavorativa, per cui numerosi artigiani collaboravano sotto la guida di un «architetto»; famosissima divenne la famiglia di intagliatori ed ebanisti Maggiolini (originari di Parabiago). Di alto livello era anche la produzione orafa. Qui emersero centri d’eccellenza come Valenza, grazie a Vincenzo Morosetti che si lanciò nella produzione di pezzi di alto pregio grazie a lavorazioni innovative; e come Roma, dove Fortunato Pio Castellani aprì in via del Corso una bottega specializzata in riproduzioni di pezzi archeologici. Anche la lavorazione della pietra incisa, di origine antica, era in piena fioritura, vista la moda dei cammei in gran voga in Francia: nel settore si distinse Teresa Talani, di Bergamo, incaricata ufficialmente di incidere un cammeo con il ritratto di Napoleone. A Napoli, invece, dopo un periodo di stasi, riprese in pieno l’attività di produzione di guanti già dal periodo del governo francese, mentre Paul Barthélemy Martin, a Torre del Greco, dava impulso alla lavorazione artistica del corallo; infine, a Volterra, Marcello Inghirami Fei rilanciò la lavorazione dell’alabastro. L’elenco potrebbe continuare.
A nessuno può sfuggire che stiamo parlando dei settori che daranno vita al celebrato made in Italy più di un secolo dopo: moda, arredamento, gioielli e articoli di pregio. Le eccellenze italiane hanno dunque una lunga storia. Ma quale fu il loro segreto, che cosa le fece affermare nell’Ottocento su un mercato nazionale in crescita e anche su quello internazionale? Si trattò certo della capacità di continuare antiche tradizioni manuali e culturali, trasmesse nelle botteghe, ma sempre più anche in ottimi istituti di formazione (la prestigiosa Accademia di Belle Arti di Brera, oltre alla sezione dedicata all’arte, ne aveva una per le arti applicate all’industria). Ma non basta. Come sottolinea ancora Tonelli, la tradizione andò di pari passo con l’innovazione. Prendiamo ad esempio l’industria vetraria di Venezia: a inizio Ottocento essa era in decadenza a causa della concorrenza estera, soprattutto delle lavorazioni inglesi; ebbene, nei decenni successivi si riprese e si espanse, riprendendo l’antica e sofistica lavorazione a filigrana, famosa a Murano, e sperimentando nuove tecniche per la realizzazione di vetri colorati, vetri soffiati, vetri murrini. Uguale rinascita conobbe la porcellana napoletana, anche dopo la chiusura della principale sede produttiva, la Poulard-Prad, poiché si verificò un «moderno» fenomeno di gemmazione: le maestranze diedero vita a numerosi laboratori specializzati. Senza contare l’esperienza della fiorentina Ginori, che mise a punto tecniche così perfezionate di riproduzione della ceramica antica, che alcuni suoi prodotti furono spacciati come pezzi originali del Rinascimento da antiquari senza scrupoli.
La lettura di questo bel volume illumina molti altri aspetti del lavoro in Italia, grazie alla capacità degli autori di affrontare la storia da prospettive non scontate. Come appunto quella degli artigiani ottocenteschi: non lavoratori attaccati a vecchie tradizioni nelle loro piccole botteghe, ma precursori di una cultura e uno stile che avrebbero in seguito caratterizzato l’Italia. A volte, la migliore lezione per il futuro è nel passato.