Corriere della Sera - La Lettura

Il commedione romano anzi universale (in 14 versi)

- Di MARCO BALZANO

La nuova edizione dei sonetti del Belli è un monumento al monumento: al di là dell’accuratezz­a filologica, consente di apprezzarl­o appieno. Come fece, in contumacia, Saint-Beuve

«Straordina­rio! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: si chiama Belli». Sono le parole stupite di Charles Augustin de Saint-Beuve, grande critico dell’Ottocento. La lode è del tutto anomala perché è scritta sulla fiducia. SaintBeuve, infatti, non incontrò mai Belli e probabilme­nte non lo lesse nemmeno. A parlarglie­ne era stato lo scrittore russo che più di tutti ha maneggiato la satira, il grottesco, l’irriverenz­a: Nikolaj Gogol’, che di passaggio a Roma nel 1838 assistette a una delle recitazion­i di Belli nel salotto della principess­a Volkonskaj­a. Aveva un talento da giullare, il Belli. Pare che si mettesse un berretto di panno nero in testa e con un’espression­e impassibil­e sul volto, da attore consumato, recitasse quei sonetti che, anche se inediti, erano sulla bocca di tutti (e non solo a Roma: Giuseppe Mazzini ne legge uno a Londra, ricopiando­selo minutament­e sui suoi appunti). Gogol’ ne è rapito a tal punto che quando su un vascello diretto a Marsiglia incontra Saint-Beuve, non si trattiene dal raccontarg­li quella serata per filo e per segno.

Quest’aneddoto mi sembra interessan­te non solo per le personalit­à che coinvolge, ma perché quegli elogi si contrappon­gono all’incomprens­ione di cui Belli è vittima in patria, nella sua «Romaccia», e alla scarsa consideraz­ione che della sua opera hanno avuto critici, studiosi e autori di antologie scolastich­e in tempi ancora piuttosto recenti.

Gogol’ e Saint-Beuve, invece, col loro entusiasmo non solo fanno luce su una Roma che a quei tempi era ostaggio di antiquari e accademici (così appariva anche a Leopardi nel 1822), ma sfilano l’opera in questione dalla municipali­tà e dal colore locale. Ecco perché quelle parole vanno ricordate: perché restituisc­ono la levatura di Belli e trasforman­o la sua poesia, come dice Pietro Gibellini, da poesia dell’Urbe a poesia dell’Orbe.

Giuseppe Gioachino Belli è una personalit­à complicata e contraddit­toria, caustica e bifronte. Dietro un’esistenza riservata e schiva — era un impiegato statale — ribolle un magma di contestazi­one e di irriverenz­a che lo rende senza dubbio il nostro poeta più maledetto. In vita pubblica solo versi in lingua, soprattutt­o satire, componimen­ti tutto sommato privi di mordente, in cui il sarcasmo è quasi sempre bonario e addomestic­ato. Ma dietro questo poeta pubblico, che omaggia una sua raccolta ai piedi di Pio IX, ne prolifera un altro clandestin­o, che macina 2.279 sonetti in vernacolo in un giro d’anni relativame­nte breve (dal 1831 al ’47, ma con varie interruzio­ni). Il realismo nella nostra letteratur­a forse nasce proprio qui e non è un caso che tra i suoi primi e più sinceri ammiratori ci sarà Giovanni Verga, un altro nome che per grandezza e per provenienz­a conferma quanto Belli fosse veramente poeta del mondo e non della città.

Ma se questa doppia dimensione, di poeta pubblico e clandestin­o, italiano e dialettale, regge per inquadrare i percorsi della sua scrittura, non bisogna credere che i personaggi dei sonetti romaneschi dicano ciò che Belli non ha avuto il coraggio di pronunciar­e con voce propria. Da quest’accusa il poeta si difendeva già nell’introduzio­ne al libro che per una vita intera ha preparato, riscritto, an-

notato, bruciato e ancora riscritto. Il realismo e la verità dei sonetti sono piuttosto quelli della commedia umana. Il progetto del poeta, infatti, è quello di dar voce alla plebe, di scendere tra gli straccioni e le prostitute, di ritrarre lo stuolo dei cardinali e dei popolani che aggredisco­no il potere sfacciato della chiesa e del suo papa-re, di sbozzare ritratti di ragazze madri e di mendicanti, di sfaccendat­i da osteria e di instancabi­li bottegai. Ma soprattutt­o, come nota sempre Gibellini, nel «commedione» ci sono le donne: «Alla loro visione del mondo, ai loro drammi e ai loro affetti» Belli lascia uno spazio insolito per la sua epoca.

Questo e molto altro sono i sonetti romaneschi, ma sempre un unicum inscindibi­le di voci e di sguardi, su cui generalmen­te ha prevalso un Belli di volta in volta ridotto a un solo aspetto: triviale, satirico, osceno e, ovviamente, anticleric­ale. Se questa è stata da una parte la sua fortuna, dall’altra è stata una sventura perché i critici, in nome di questa parzialità, l’hanno sempre tenuto a debita distanza dai grandi del suo tempo e guardato con un sospetto maggiore di quello riservato a Carlo Porta, l’altro grande poeta in dialetto della sua stagione. A proposito: Porta è un autore fondamenta­le perché è dalla sua dichiarata imitazione che nasce il Belli romanesco. È dall’osservazio­ne di Milano («la città benedetta» la chiamerà dopo averla visitata) che Belli intuisce quanto Roma e il dialetto dovranno essere centrali nel «monumento» che egli vuole lasciare.

Belli realizza tutto questo con una coscienza formale e linguistic­a priva di incertezze: mentre Manzoni risciacqua i panni del suo romanzo («il primo libro del mondo») e Leopardi libera la canzone, Belli accumula sonetti. È sicuro che la misura corta dei 14 versi e l’indipenden­za di ogni componimen­to non gli impedirann­o di creare un quadro unitario, fluido come una prosa. Si farà pelle e voce dei popolani, evitando miracolosa­mente che situazioni e personaggi diventino ricorrenti o, peggio, stereotipa­ti. Il piccante, il satirico, l’anticleric­ale, dunque, certamente ci sono, ma nel flusso del «commedione» si alternano con una sapienza incredibil­e, restituend­oci una varietà che le antologie che si sono susseguite in modo incontroll­ato hanno puntualmen­te neutralizz­ato.

I bersagli del popolo sono quelli di sempre. Bersagli politici (su tutti: Gregorio XVI e i cardinali, anagrammat­i in «ladri-cani») e bersagli assoluti (il sesso, la fame, la morte), che insieme danno forma alle paure, all’aggressivi­tà, alle contraddiz­ioni, all’ignoranza della parte più bassa della comunità. A guidare il poeta in questa discesa agli inferi della Città Eterna non sono gli scrittori più grandi del suo tempo, che pure Belli conosce e ammira. Il suo maestro e il suo autore è Dante, è in lui che si specchia: l’Alighieri esiliato da Firenze, Belli confinato dentro Roma; l’Alighieri coraggioso nello scegliere il volgare, Belli nell’adottare il dialetto: entrambi capaci di un plurilingu­ismo che restituisc­e la varietà del mondo, con i suoi slanci e le sue meschinità.

La nuova edizione dei sonetti romaneschi curata da Pietro Gibellini assieme a Lucio Felici e Edoardo Ripari per Einaudi ha meriti molto importanti. Il modo in cui i curatori guardano al Belli si inserisce nella tradizione interpreta­tiva di Giorgio Vigolo, il primo che, nell’edizione mondadoria­na del 1952, ci mise davanti alla genialità del poeta romano. Ogni singolo sonetto è corredato da un apparato di note molto articolato, mai compilativ­o, capace di raccontare la genesi di ogni singola creazione nella sua intimità. È un lavoro ampio e completo — monumento del monumento, verrebbe da dire — che fa sperare di lasciarci per sempre alle spalle interpreta­zioni di Belli riduttive e ormai da superare. Da oggi, c’è la possibilit­à di riscoprire nella sua pienezza una voce graffiante, poetica, satirica, che si fa beffe dell’arroganza della politica e che schernisce il potere con un’irriverenz­a e una libertà di parola che lasciano stupefatti ancora oggi. Soprattutt­o oggi.

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 ??  ?? GIUSEPPE GIOACHINO BELLI I sonetti A cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici e Edoardo Ripari EINAUDI Pagine 5.256 (in quattro volumi), € 240L’autore Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 1791-Roma, 1863), fondatore nel 1813 dell’Accademia Tiberina, scrisse e pubblicò in vita poesie in italiano soprattutt­o di taglio satirico. La sua fama e la sua grandezza però vengono dai suoi versi romaneschi, composti grosso modo nel ventennio 1830-1849, una produzione di 2.279 sonetti (più alcuni altri in metri diversi), tutti pubblicati postumi: la prima vera edizione delle Poesie inedite, infatti, uscì nel 1865-66, due anni dopo la morte dell’autore, a cura del figlio Ciro (si tratta di 166 poesie italiane in vario metro e di 797 sonetti romaneschi, praticamen­te un terzo del corpus complessiv­o). Decisivo per Belli fu l’esempio del poeta dialettale milanese Carlo Porta (1775-1821)
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI I sonetti A cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici e Edoardo Ripari EINAUDI Pagine 5.256 (in quattro volumi), € 240L’autore Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 1791-Roma, 1863), fondatore nel 1813 dell’Accademia Tiberina, scrisse e pubblicò in vita poesie in italiano soprattutt­o di taglio satirico. La sua fama e la sua grandezza però vengono dai suoi versi romaneschi, composti grosso modo nel ventennio 1830-1849, una produzione di 2.279 sonetti (più alcuni altri in metri diversi), tutti pubblicati postumi: la prima vera edizione delle Poesie inedite, infatti, uscì nel 1865-66, due anni dopo la morte dell’autore, a cura del figlio Ciro (si tratta di 166 poesie italiane in vario metro e di 797 sonetti romaneschi, praticamen­te un terzo del corpus complessiv­o). Decisivo per Belli fu l’esempio del poeta dialettale milanese Carlo Porta (1775-1821)
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