Corriere della Sera - La Lettura
260 anni di promesse (non mantenute) ai nativi americani
Memoria e diritti Nel New Jersey i coloni europei fondarono nel 1758 la prima riserva per gli indigeni, cui seguirono assicurazioni di autonomia e pace. Invece sappiamo com’è andata a finire: massacri, discriminazione, una cultura emarginata. Il vicepresi
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Il debito non è mai stato saldato. Gli indigeni d’America aspettano da 182 anni che Washington onori la parola data. Aspettano che l’uomo bianco tenga fede alla promessa di rispettare le terre possedute un tempo dai loro antenati e che l’amministrazione federale mantenga gli accordi raggiunti con i capi tribali. Uno dei più importanti venne firmato il 28 marzo 1836 tra i capi delle tribù Ottawa e Chippewa e il governo degli Stati Uniti, rappresentato dall’etnologo Henry R. Schoolcraft. L’accordo prevedeva la cessione agli americani di quasi sei milioni di ettari, la terra su cui sarebbe sorto lo Stato del Michigan, nella regione dei Grandi Laghi. «Quando la mia gente firmò quel trattato», spiega Aaron Payment, presidente della tribù Chippewa di Sault Ste. Marie, in Michigan, «il governo federale garantì in cambio che avrebbe provveduto all’educazione e all’assistenza sociale e sanitaria “fino a che l’erba crescerà, i venti soffieranno e i fiumi scorreranno”, ovvero per sempre. Si sono dimenticati di questa promessa. Oggi la nostra sfida più grande è ricordare al governo americano la parola data alla nostra gente».
«La Lettura» ha parlato con Payment in occasione dell’anniversario di un evento cruciale per gli indigeni d’America: 260 anni fa, il 29 agosto 1758, i coloni europei fondarono la prima riserva indiana (chiamata Brotherton) a Shamong Township, New Jersey, in quelli che sarebbero diventati nel 1776 gli Stati Uniti. La riserva comprendeva più di mille ettari di terra destinati alla tribù Lenape, conosciuta anche con il nome Delaware, come lo Stato che si affaccia sull’Atlantico.
«Sono originario della penisola superiore del Michigan — racconta Aaron Payment, 53 anni — al confine con il Canada. La città più grande in quell’area, Marquette, non arriva a 30 mila abitanti. Sault Ste. Marie, dove vivo io, non ne ha 14 mila. Nel 1938 mia prozia Levina e mio prozio Isaac fecero richiesta perché la nostra tribù venisse riconosciuta dal governo federale degli Stati Uniti. Fu l’inizio di una lunga battaglia, culminata nel 1972, quando ai Chippewa di Sault Ste. Marie venne concesso dal Dipartimento degli interni lo status formale di tribù. Per i primi 7 anni di vita era come se non avessi un’identità. Ci sentivamo relegati alla periferia della società. I bambini della mia tri- bù finivano a malapena la quinta elementare».
Payment riveste anche un ruolo nazionale: è vicepresidente del National Congress of American Indians (Ncai), fondato nel 1944 con lo scopo di proteggere le tradizioni delle tribù native americane in tutto il Paese e di essere la «voce unificata delle nazioni tribali». È la più vasta e antica associazione americana con questo scopo. In quanto vicepresidente dell’Ncai, a giugno 2017 Payment è stato ricevuto alla Casa Bianca da Trump insieme a 7 esponenti di altrettante tribù. «Ognuno di loro risiedeva su una terra che ha grande disponibilità di risorse naturali — spiega Payment —. Io ero stato invitato in quanto membro dell’associazione. È stato un incontro strano. Per la maggior parte abbiamo ascoltato Trump vantarsi di come aveva battuto Hillary Clinton alle presidenziali. Ma il vero scopo di quella giornata era convincere le tribù a dare il proprio consenso perché Washington potesse utilizzare quelle risorse energetiche. Volevano velocizzare il processo burocratico e cominciare i lavori. Alcune tribù erano favorevoli. Io no».
Dalla fine del XVII secolo in poi, la memoria storica dei nativi americani è costellata di cicatrici. Brucia ancora, tra gli altri, il massacro di Wounded Knee, in Sud Dakota, dove il 29 dicembre 1890 l’esercito degli Stati Uniti sterminò i Lakota Sioux: uno degli eventi più dram-
matici legati alla conquista del West, raccontato nel libro del 1970 Seppellite il mio cuore a
Wounded Knee di Dee Brown (1908-2002). Il massacro di Wounded Knee aveva radici lontane: nel 1829, durante il suo primo messaggio al Congresso, il presidente Andrew Jackson (1767-1845), che gli indiani chiamavano Coltello Affilato per il suo crudele passato militare, propose «la creazione di un ampio distretto a Ovest del Mississippi, la cui proprietà deve essere garantita alle tribù indiane finché esse la occuperanno».
Una promessa che non sarà mai mantenuta. Con Jackson nacque la «frontiera indiana permanente», che si estendeva a Ovest del 95° meridiano, esclusi Missouri, Louisiana e Arkansas. Tutte le tribù indiane orientali furono costrette a spostarsi al di là del nuovo confine. Fu uno dei periodi più bui per i popoli indigeni.
Il presente non è molto diverso. Nel 2016 i Sioux della riserva indiana di Standing Rock hanno denunciato il governo di Obama per non averli consultati nella costruzione della Dakota Access Pipeline, un oleodotto lungo 1.886 chilometri che attraversa quattro S t a t i , o p e r a t i vo d a l 2017. «L’oleodotto — continua Payment — incrocia territori sacri per gli indiani, dove le tribù pregano e dove seppelliscono i loro morti. Abbiamo chiesto che Washington consultasse la gente del luogo prima di portare avanti i lavori. Con Obama avevamo quasi raggiunto un accordo. Ma poi è arrivato Trump e ha firmato un ordine esecutivo per consentire di accelerare la costruzione».
Oggi ci sono 576 tribù riconosciute negli Stati Uniti, le cui popolazioni fanno i conti con povertà, precarie condizioni di salute, scarsi fondi federali per l’educazione e i guasti provocati dall’uso massiccio di oppioidi. «Dal 1999 — aggiunge Payment — c’è stato un aumento del 500% delle morti causate da overdose nella popolazione indiana. Non solo: viviamo sotto le continue minacce dei nostri governanti, i quali cercano di appropriarsi dei luoghi in cui cacc i a mo e pes c hi a mo, due mezzi di sostentamento essenziali per la nostra sopravvivenza, da cui ricaviamo grandi profitti. Gli indigeni vivono oggi in un costante “trauma storico”».
Lo spirito con cui venne firmato il
nel 1 787, grazi e al quale Washington si espandeva verso occidente, il West, sembra lontano. L’ordinanza sottolineava come «la massima buona fede sarà osservata verso gli indiani», che «le terre e le proprietà che possiedono non saranno mai occupate senza il loro consenso». Secoli di soprusi hanno insegnato che non è stato così. Un altro scenario è diventato, al contrario, molto popolare: quello della Frontiera, un mito che ha ispirato Hollywood. «I film che raffigurano i bianchi buoni da una parte e gli indiani cattivi dall’altra — prosegue Payment — non sarebbero così dannosi se si sapesse la verità. Il problema è che nelle scuole americane si insegna la storia vista da una sola prospettiva, quella dei bianchi buoni. I libri non riconoscono il grande contributo dato dagli indigeni allo sviluppo di questo Paese. Se imparassimo qualcosa di più sugli indiani potremmo distinguere le caricature offerte da certi film dalla realtà». Il capo indiano Nuvola Rossa (1822-1909) profetizzò che all’arrivo della Settima generazione, i figli degli adulti di oggi, la cultura, la lingua e la religione Lakota «saranno affrancate dai bianchi e fioriranno senza fine». L’auspicio di Payment è che anche la sua gente possa raggiungere un giorno questa indipend e n z a : « Ne l l a mi a l i n g u a c i c h i a mi a mo
anishinaabeg, che significa “popolo delle origini”. È così che vogliamo essere riconosciuti. Per quello che siamo».