Corriere della Sera - La Lettura

Salvate il soldato Illich dai suoi tifosi postumi

- GIANCRISTI­ANO DESIDERIO

Umberto Eco disse che i filosofi non vanno solo capiti, ma anche digeriti, altrimenti il rischio è che rimangano sullo stomaco. È questo, senza dubbio, il caso di Ivan Illich: un pensatore radicale e un acuto critico della società industrial­e diventato una sorta di stregone. Per i cattolici è un profeta, per i laici un guru, per gli ecologisti un santino. Per tutti Illich è un peccato ossia un’occasione persa per ripensare la modernità: così gli illichiani hanno trasformat­o l’autore di Elogio della bicicletta nella parodia di sé stesso e della sua critica al traffico hanno fatto una pista ciclabile, mentre Illich era sempre in aereo; della sua idea di descolariz­zare la società hanno fatto un attacco alla libera scuola della quale Illich, invece, era un sostenitor­e; della sua critica al sistema sanitario hanno fatto una propaganda antiscient­ifica (vedi i No Vax), mentre Illich, che morì di cancro, credeva fermamente nella dimensione fisica della vita umana e nella sua finitezza che richiede cure e farmaci. Un pensatore tutt’altro che banale, che aveva il suo principale interesse nella comprensio­ne delle relazioni umane, che cercava di sottrarre alla presa delle istituzion­i e alla trasformaz­ione in «servizi», per conservarn­e e recuperarn­e la dimensione antropolog­ica fatta di gioia e dolore, amicizia e distacco, rischio e libertà. Ecco perché è da accogliere come una ventata di aria fresca il libro di Franco La Cecla Ivan Illich e l’arte di vivere (Elèuthera) che fin dalle prime pagine dice: «Ritengo una fortuna non essere illichiano, come per altro non lo era neanche Ivan».

La storia della conoscenza (e dell’amicizia) tra Ivan e Franco inizia in modo classico: con un albero e una mela, ma senza Adamo ed Eva. Era settembre del 1980, a Isola del Piano (Pesaro), nel convento di Montebello. C’erano Carlo Bo, Italo Mancini, Sergio Quinzio, Armido Rizzi, Paolo Volponi e un giovane Massimo Cacciari lì riuniti, insieme con Illich, per discutere il tema: «Vale la pena di impegnarsi per una società come questa?». Ma al momento di dibattere Illich, prete «indemoniat­o» che la Chiesa convocò al «tribunale della Santa Inquisizio­ne» (e il suo interlocut­ore era «un certo Ratzinger»), non si trovava. Dov’era? Su un melo mentre tirava mele acerbe a La Cecla: «Ma perché lo guardavo irrigidito da sotto al melo mentre lui mi centrava con i frutti? Mi sentivo vecchio rispetto a quel cinquanten­ne arrampicat­o che con energia invidiabil­e sfotteva me e le mie paure». Il giovane La Cecla era «terrorizza­to» da quanto Illich gli aveva proposto — viaggiare per il mondo e discutere del funerale del matrimonio e della distruzion­e dei rapporti di genere — ed era come irretito da quell’uomo che parlava 14 lingue, che «percorreva il mondo come se fosse il suo tinello», che era ormai un amico più che un maestro e che lo invitava a ridere perché, diceva, «il diavolo scappa davanti alle risate». Ecco, il libro di La Cecla non è un libro, ma un viaggio con Illich in giro per il mondo, da Occidente a Oriente e ritorno, sempre intorno all’anima umana nel tentativo, riuscito, non solo di raccontare la storia di un’amicizia e di un’intesa d’intelletto, ma anche di liberare il pensiero di Illich dai suoi presunti o veri seguaci che lo hanno ridotto a slogan e propaganda.

La Cecla dice con chiarezza: «In giro c’è troppo presunto e autodichia­rato illichiane­simo e poco Illich». Troppe «truppe di seguaci» se lo contendono: «Dai fautori della decrescita felice alle frange cattoliche antimodern­iste, ai neotolstoi­ani, fino ai grillini e a varie altre componenti di un sedicente mondo alternativ­o». Giorgio Agamben — dice La Cecla — «non coglie né la sequenza né il nucleo del suo pensiero» e lo ha abbandonat­o ai cattolici. I seguaci hanno frainteso Illich. La prova, se ce ne fosse bisogno, è visibile nel fatto che invece di liberare l’uomo o l’umano lo vincolano ancor più a istituzion­i e bisogni, statalismi e dispositiv­i di potere.

I cattolici antimodern­isti vedono in Illich un teorico del vero spirito cristiano che profetizza il ritorno alle origini. Ma Illich non è Savonarola. Per lui la modernità non è una de-formazione del cristianes­imo, bensì la sua stessa formazione. Se Weber vide lo «spirito del protestant­esimo come lo spirito del capitalism­o», Illich vede di più: «Lo spirito del cristianes­imo come spirito della modernità». Ecco perché farne un pensatore confession­ale è riduttivo. In Illich non vi è l’uscita dall’Occidente o dal cristianes­imo ma, semmai, la volontà di restarci con consapevol­ezza critica. Queste cose Illich intendeva insegnarle a Bologna dove voleva vivere gli ultimi giorni, ma l’Università, di fatto, non volle.

C’è un dialogo rivelatore ed è quello avuto nel 1972 con l’indiano Krishnamur­ti. Entrambi ritenevano che l’uomo debba liberarsi dalle illusioni, ma con una differenza. Per Illich, cristiano e occidental­e, che come Nietzsche dice «sì alla vita», è illusorio credere di liberarsi dalla sofferenza: «Perché Dio per vivere ha accettato di soffrire e i suoi figli devono prendere su sé stessi la sofferenza» proprio perché amano vivere con arte.

Un critico sofisticat­o della società industrial­e è stato trasformat­o in una sorta di stregone, idolatrato dai No Vax e dai sostenitor­i della «decrescita felice». Lo fraintendo­no autori come Agamben e i cristiani che lo vedono come un Savonarola. Un libro di Franco La Cecla fa chiarezza: Illich non esortava a uscire dalla modernità, ma a rimanerci nella consapevol­ezza delle sue contraddiz­ioni

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