Corriere della Sera - La Lettura
Salvate il soldato Illich dai suoi tifosi postumi
Umberto Eco disse che i filosofi non vanno solo capiti, ma anche digeriti, altrimenti il rischio è che rimangano sullo stomaco. È questo, senza dubbio, il caso di Ivan Illich: un pensatore radicale e un acuto critico della società industriale diventato una sorta di stregone. Per i cattolici è un profeta, per i laici un guru, per gli ecologisti un santino. Per tutti Illich è un peccato ossia un’occasione persa per ripensare la modernità: così gli illichiani hanno trasformato l’autore di Elogio della bicicletta nella parodia di sé stesso e della sua critica al traffico hanno fatto una pista ciclabile, mentre Illich era sempre in aereo; della sua idea di descolarizzare la società hanno fatto un attacco alla libera scuola della quale Illich, invece, era un sostenitore; della sua critica al sistema sanitario hanno fatto una propaganda antiscientifica (vedi i No Vax), mentre Illich, che morì di cancro, credeva fermamente nella dimensione fisica della vita umana e nella sua finitezza che richiede cure e farmaci. Un pensatore tutt’altro che banale, che aveva il suo principale interesse nella comprensione delle relazioni umane, che cercava di sottrarre alla presa delle istituzioni e alla trasformazione in «servizi», per conservarne e recuperarne la dimensione antropologica fatta di gioia e dolore, amicizia e distacco, rischio e libertà. Ecco perché è da accogliere come una ventata di aria fresca il libro di Franco La Cecla Ivan Illich e l’arte di vivere (Elèuthera) che fin dalle prime pagine dice: «Ritengo una fortuna non essere illichiano, come per altro non lo era neanche Ivan».
La storia della conoscenza (e dell’amicizia) tra Ivan e Franco inizia in modo classico: con un albero e una mela, ma senza Adamo ed Eva. Era settembre del 1980, a Isola del Piano (Pesaro), nel convento di Montebello. C’erano Carlo Bo, Italo Mancini, Sergio Quinzio, Armido Rizzi, Paolo Volponi e un giovane Massimo Cacciari lì riuniti, insieme con Illich, per discutere il tema: «Vale la pena di impegnarsi per una società come questa?». Ma al momento di dibattere Illich, prete «indemoniato» che la Chiesa convocò al «tribunale della Santa Inquisizione» (e il suo interlocutore era «un certo Ratzinger»), non si trovava. Dov’era? Su un melo mentre tirava mele acerbe a La Cecla: «Ma perché lo guardavo irrigidito da sotto al melo mentre lui mi centrava con i frutti? Mi sentivo vecchio rispetto a quel cinquantenne arrampicato che con energia invidiabile sfotteva me e le mie paure». Il giovane La Cecla era «terrorizzato» da quanto Illich gli aveva proposto — viaggiare per il mondo e discutere del funerale del matrimonio e della distruzione dei rapporti di genere — ed era come irretito da quell’uomo che parlava 14 lingue, che «percorreva il mondo come se fosse il suo tinello», che era ormai un amico più che un maestro e che lo invitava a ridere perché, diceva, «il diavolo scappa davanti alle risate». Ecco, il libro di La Cecla non è un libro, ma un viaggio con Illich in giro per il mondo, da Occidente a Oriente e ritorno, sempre intorno all’anima umana nel tentativo, riuscito, non solo di raccontare la storia di un’amicizia e di un’intesa d’intelletto, ma anche di liberare il pensiero di Illich dai suoi presunti o veri seguaci che lo hanno ridotto a slogan e propaganda.
La Cecla dice con chiarezza: «In giro c’è troppo presunto e autodichiarato illichianesimo e poco Illich». Troppe «truppe di seguaci» se lo contendono: «Dai fautori della decrescita felice alle frange cattoliche antimoderniste, ai neotolstoiani, fino ai grillini e a varie altre componenti di un sedicente mondo alternativo». Giorgio Agamben — dice La Cecla — «non coglie né la sequenza né il nucleo del suo pensiero» e lo ha abbandonato ai cattolici. I seguaci hanno frainteso Illich. La prova, se ce ne fosse bisogno, è visibile nel fatto che invece di liberare l’uomo o l’umano lo vincolano ancor più a istituzioni e bisogni, statalismi e dispositivi di potere.
I cattolici antimodernisti vedono in Illich un teorico del vero spirito cristiano che profetizza il ritorno alle origini. Ma Illich non è Savonarola. Per lui la modernità non è una de-formazione del cristianesimo, bensì la sua stessa formazione. Se Weber vide lo «spirito del protestantesimo come lo spirito del capitalismo», Illich vede di più: «Lo spirito del cristianesimo come spirito della modernità». Ecco perché farne un pensatore confessionale è riduttivo. In Illich non vi è l’uscita dall’Occidente o dal cristianesimo ma, semmai, la volontà di restarci con consapevolezza critica. Queste cose Illich intendeva insegnarle a Bologna dove voleva vivere gli ultimi giorni, ma l’Università, di fatto, non volle.
C’è un dialogo rivelatore ed è quello avuto nel 1972 con l’indiano Krishnamurti. Entrambi ritenevano che l’uomo debba liberarsi dalle illusioni, ma con una differenza. Per Illich, cristiano e occidentale, che come Nietzsche dice «sì alla vita», è illusorio credere di liberarsi dalla sofferenza: «Perché Dio per vivere ha accettato di soffrire e i suoi figli devono prendere su sé stessi la sofferenza» proprio perché amano vivere con arte.
Un critico sofisticato della società industriale è stato trasformato in una sorta di stregone, idolatrato dai No Vax e dai sostenitori della «decrescita felice». Lo fraintendono autori come Agamben e i cristiani che lo vedono come un Savonarola. Un libro di Franco La Cecla fa chiarezza: Illich non esortava a uscire dalla modernità, ma a rimanerci nella consapevolezza delle sue contraddizioni