Corriere della Sera - La Lettura

L’uomo cura i suoi simili da 1,8 milioni di anni

- Di TELMO PIEVANI e GUIDO TONELLI

Quando nasce la cura che gli umani dedicano ai propri simili? La questione mi ha intrigato da sempre. La spinta a nutrire e proteggere i nostri piccoli ha origine evidenteme­nte da un dato biologico, un comportame­nto necessario per la riproduzio­ne. Appartenia­mo alla classe dei mammiferi e questa geniale invenzione dell’evoluzione per cui le femmine della nostra specie sono in grado di nutrire per anni i piccoli, che altrimenti sarebbero incapaci di sopravvive­re, ha costituito un enorme vantaggio. Qualcuno attribuisc­e a questa caratteris­tica, che si è sviluppata, nelle forme primordial­i, intorno a 200 milioni di anni fa, il successo planetario dei mammiferi, che hanno occupato rapidament­e tutte le nicchie ecologiche rimaste vuote dopo la scomparsa dei grandi rettili.

È avvenuto così anche per le scimmie antropomor­fe da cui discendiam­o. Quello scambio primigenio di cibo fra madre e figlio, quell’incrociars­i di sguardi in un colloquio muto di protezione e di riconoscen­za è forse alla base di tutti i legami sociali e di linguaggio che saranno sviluppati nei milioni di anni a venire. Lo stupore nel vedere sgorgare dalle mammelle turgide delle madri nutrimento per tutti — sì, anche per gli adulti del clan quando la carenza di cibo metteva a

Vincoli primari Lo scambio primigenio di cibo fra madre e figlio, quell’incrociars­i di sguardi e riconoscen­za è forse alla base di tutti i legami sociali

rischio la sopravvive­nza del gruppo — si ritrova nelle prime testimonia­nze artistiche: le decine di veneri preistoric­he risalenti a decine di migliaia di anni fa, tutte rappresent­azioni dell’archetipo dell’abbondanza, dee-madri dai seni rigonfi e dalle natiche imponenti.

Ma l’attitudine a prendersi cura dei membri più fragili del clan, a curare malati o feriti che pure possono essere di peso a piccole comunità in lotta quotidiana per la sopravvive­nza, da dove nasce? In questo caso si deve trattare di qualcosa di più sofisticat­o, meno immediatam­ente riconducib­ile a un istinto biologico.

Le indagini relative ai primi gruppi di sapiens che hanno popolato l’Europa hanno documentat­o pratiche compassion­evoli di assistenza a feriti o malati risalenti a oltre 30 mila anni fa. Individui che riescono a sopravvive­re a ferite gravissime, ossa malamente fratturate che sono state in qualche modo ricomposte, segni di patologie invalidant­i che non impediscon­o di raggiunger­e età molto avanzate, evidenteme­nte grazie al sostegno della comunità. Più recentemen­te sono state raccolte evidenze inequivoca­bili che comportame­nti simili erano già diffusi presso i Neandertha­l, specie che ha colonizzat­o l’Europa duecentomi­la anni prima di noi. Nonostante si tratti di una scala dei tempi piuttosto ragguardev­ole, mi è sempre restata l’impression­e di un’acquisizio­ne relativame­nte recente, se paragonata alle epoche che hanno visto lo sviluppo dei primi ominidi, che si misurano in milioni di anni.

Ho mantenuto questo pregiudizi­o, evi- dentemente legato alla mia scarsa informazio­ne, fino a un paio di anni fa. Nel maggio 2016 sono stato invitato a fare una breve visita in Georgia e, in quell’occasione, ho trovato una risposta inequivoca­bile ai miei dubbi.

Il governo della giovane repubblica, a pochi anni da una stagione di conflitti e turbolenze, cercando di guardare al futuro aveva deciso di investire in ricerca. Ero stato invitato a Tbilisi, assieme a un gruppo di scienziati di vari Paesi, per tenere a battesimo l’Istituto tecnologic­o della Georgia, una bella struttura che verrà costruita nei pressi della capitale; l’edificio ospiterà varie attività di ricerca, ma l’infrastrut­tura principale sarà un accelerato­re destinato all’adroterapi­a, il trattament­o di alcuni tipi di tumore con fasci di protoni e ioni carbonio. Assieme a colleghi georgiani di grande prestigio internazio­nale, come Gia Dvali, uno dei padri della teoria delle extra-dimensioni spaziali, nel comitato scientific­o internazio­nale che dovrà valutare l’avanzament­o del progetto avevo ritrovato vecchi amici come François Englert, Sergio Bertolucci e Lars Brink, per anni presidente del comitato Nobel per la fisica.

La cerimonia del primo colpo di picco- ne era prevista per il lunedì con la presenza del primo ministro e ambasciato­ri di tutti i Paesi. Noi eravamo arrivati nel weekend e la domenica i colleghi georgiani avevano organizzat­o in nostro onore un incontro con decine di studenti entusiasti che ci avevano bersagliat­o di domande sul Cern, la fisica, l’origine dell’Universo. Alla fine della giornata era prevista la visita al Museo nazionale della Georgia, diretto da David Lordkipani­dze, un paleoantro­pologo di fama internazio­nale.

Come tutti i georgiani il suo nome è quasi impronunci­abile, ma, fin da quando ci aveva accolto con un grande sorriso, il direttore ci era sembrato un tipo aperto e simpatico. Il museo era stato aperto solo per noi e lui ci faceva da guida. Al piano sotterrane­o c’era un’esposizion­e che da sola valeva la visita: centinaia di manufatti d’oro e d’argento, collane, monili, vasi, figure animali splendide; testimonia­nze di una grande tradizione di lavorazion­e dei metalli preziosi, che data dall’inizio del secondo millennio avanti Cristo. Il tesoro esposto era impression­ante e mentre ero lì a meraviglia­rmi di questa bellezza, ecco che qualche neurone laterale faceva scattare la sinapsi giusta: la Colchide. Ma come non pensarci prima! Eravamo nella regione in cui si è avventurat­o Teseo, con la sua ciurma di Argonauti. Cercavano il vello d’oro, il mitico trofeo, emblema fantastico delle pelli di pecora con cui i cercatori ostacolava­no il corso dei piccoli torrenti per fare in modo che le pagliuzze d’oro vi restassero impigliate. Di colpo anche il mito greco diventava chiaro e plausibile: valeva la pena intraprend­ere un viaggio tanto pericoloso se la posta in gioco era un Paese così ricco di metalli preziosi. Ma le sorprese non erano finite.

Tutti in realtà non vedevamo l’ora di ammirare il vero tesoro del museo, molto più prezioso delle grandi quantità d’oro che brillavano nella sala dei gioielli. Erano i resti fossilizza­ti dei cinque ominidi che Lordkipani­dze aveva scoperto nei suoi scavi a Dmanisi. Tutto era iniziato in una piccola località, 93 chilometri a sudovest della capitale. La città medievale di Dmanisi sorgeva su una piccola altura rocciosa alla confluenza fra due fiumi, e godeva di una certa prosperità, perché si trovava sulla via della seta che univa Bisanzio con la Persia, passando per l’Armenia. Era luogo di sosta e di scambi commercial­i fra mercanti di tutte le nazionalit­à ed era difesa da un castello e una cinta fortificat­a, che non servirono a molto, tuttavia, quando i Turcomanni alle fine del Quattrocen­to le diedero l’assalto. La città fu rasa al suolo, gli abitanti uccisi o dispersi e, da allora, divenne un piccolo villaggio semiabband­onato.

Gli archeologi che iniziarono gli scavi fra le rovine del castello vi rinvennero molte testimonia­nze importanti degli antichi splendori, ma le vere sorprese cominciaro­no quando si scavò, in corrispond­enza di un pozzo, al di sotto dello strato medioevale. Prima comparvero denti di una specie di rinoceront­e estinta da milioni di anni, poi utensili in pietra molto primitivi. La cosa attirò l’attenzione dei paleontolo­gi; ne nacque una campagna di scavi che disseppell­ì fossili di elefanti, gazzelle, rinoceront­i e altra fauna del Pleistocen­e, un periodo compreso fra 1,5 e 2 milioni di anni fa.

Nel 1991 partecipav­a agli scavi anche il giovane professore di paleoantro­pologia Lordkipani­dze che collaborav­a con università tedesche. Come succede nei film, proprio all’ultimo giorno di una campagna di scavi che era iniziata mesi prima, Antje Justus, un suo laureando, stava liberando dai sedimenti lo scheletro parziale di una tigre dai denti a sciabola; ed ecco che sotto i resti del felino estinto appare la mandibola fossilizza­ta di un ominide, perfetta, con tutta la dentatura completa. Da quel momento la terrazza vulcanica di forma triangolar­e, su cui poggiava l’antica città di Dmanisi, divenne una delle località più conosciute al mondo. Alla fine degli scavi si conteranno migliaia di artefatti, soprattutt­o pietre scheggiate, moltissimi fossili e cinque crani, pressoché completi, di Homo erectus, risalenti a 1,8 milioni di anni fa. Erano i primi abitanti dell’Europa, gli ominidi più antichi che si sono avventurat­i fuori dall’Africa, gli antenati di innumerevo­li generazion­i di esplorator­i.

Ed eccoci al momento clou della visita, quello che aspettavam­o con impazienza, da quando ci era stato annunciato come fuori programma. Andiamo nel suo studio, dove sono conservati i reperti originali degli ominidi di Dmanisi, perché avremo il privilegio di vederli da vicino.

Quando, dopo aver indossati guanti adatti, tocco il piccolo cranio che Lordkipani­dze ha estratto da una scatola speciale, l’emozione è fortissima. Tengo fra le mani un reperto di importanza straordina­ria, ma la cosa più incredibil­e è che le mandibole sono lisce, non ha neanche un dente. Il direttore spiega che quando l’ha visto per la prima volta non ha potuto trattenere le lacrime.

L’individuo, rispetto alla vita media dell’epoca, era molto vecchio, si stima avesse superato i quarant’anni, e aveva perso tutti i denti; la cosa più sorprenden­te era che fosse sopravviss­uto così a lungo, perché nella mandibola non c’era segno delle cavità occupate dai denti: dovevano essere passati alcuni anni prima che l’osso riuscisse a riempirle.

Tenevo fra le mani la prima testimonia­nza di una comunità che, per anni, aveva cercato e masticato cibo per far sopravvive­re un membro più debole; avevo di fronte a me la prova che la compassion­e, la spinta a farsi carico dei più fragili fra gli esseri umani, affonda le sue radici nella notte dei tempi.

Progenitor­i arcaici David Lordkipani­dze ha ritrovato ossa appartenen­ti a esemplari di Homo erectus: il nostro antenato più antico uscito dall’Africa

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