Corriere della Sera - La Lettura
I figli di Satana non abitano alle Andamane
L’uccisione del missionario che voleva convertire nativi isolati dal mondo
Il 17 novembre il missionario americano John Allen Chau è stato ucciso sull’isola di North Sentinel, nel gruppo delle Andamane e Nicobare (Golfo del Bengala, India). La vicenda ha avuto una sorprendente visibilità mediatica, forse perché tocca alcuni punti sensibili del nostro immaginario antropologico. Da un lato l’irruenza e l’arroganza di un fervido cristiano — Chau era un seguace del movimento pentecostale fondato dal telepredicatore americano Oral Roberts — deciso a portare il messaggio evangelico sull’«ultima isola di Satana». Dall’altro il tema sempreve rde dei popoli s e nza contatt i , estremi baluardi di resistenza contro la globalizzazione e la civiltà.
Il missionario Chau aveva scelto North Sentinel proprio perché affascinato dal mito dei popoli incontattati. «Signore — scriveva nel suo diario — è questa l’ultima roccaforte di Satana in cui nessuno ha mai sentito il tuo nome?». Come un missionario d’antan, Chau cercava il martirio, lo spargimento di sangue che vivifica di fede le popolazioni pagane. Ben conscio, come si evince dai suoi scritti, di violare una legge indiana che impedisce di avvicinarsi e sbarcare a North Sentinel, dopo essersi fatto portare da alcuni pescatori al largo dell’isola, per due volte era stato respinto. Nel suo diario annota particolari che riproducono l’habitus dei primi martiri cristiani: l’evocazione del nome di Gesù davanti a un popolo ostinatamente preda di Satana; la freccia scagliata da un sentinelese che trafigge la Bibbia che il missionario ha in mano. Nel secondo tentativo, in un crescendo di pathos, la canoa viene spezzata in due dai nativi che lo invitano a tornare dai pescatori. Prima dell’ultimo, fatale tentativo, Chau scrive alla famiglia: «Per favore, non siate arrabbiati con loro o con Dio se verrò ucciso. Piuttosto, vi prego, vivete le vostre vite in obbedienza a ciò cui Egli vi ha chiamato». La morte è sfidata in quanto via di accesso alla conversione e alla parola di Dio.
La visione del povero Chau, tuttavia, era alquanto ottimista. Gli abitanti di North Sentinel, dopo aver sepolto il corpo del missionario, che ancora deve essere recuperato, non si sono affatto convertiti. E non si tratta neppure di un popolo incontattato. Gli abitanti dell’isola, il cui numero è difficile da stimare (alcune decine o centinaia) hanno scelto di vivere senza relazioni con l’esterno, probabilmente in seguito agli effetti drammatici di qualche incontro precedente (malattie? Violenze?). I sentinelesi parlano una lingua di cui non sappiamo quasi nulla: alcuni studiosi pensano che sia connessa a quelle Onge o Juwara parlate in altre aree delle Andamane e che appartengono al gruppo austronesiano. La società di North Sentinel ha avuto contatti antichi di cui sappiamo poco con le altre Andamane, ha avuto scambi e scontri con gli inglesi nel periodo coloniale. Nel 1880 alcuni sentinelesi vennero portati a forza nel capoluogo di Port Blair: l’intero gruppo ebbe subito gravi problemi di salute e i superstiti furono riportati velocemente sull’isola. Dopo l’indipendenza, l’isola ha avuto relazioni saltuarie con le autorità dell’India fino all’inizio degli anni Novanta. Nel 1991, un’équipe di antropologi indiani guidati da Triloknath Pandit stabilì buone relazioni con i nativi, a cui vennero offerti doni come oggetti in ferro e cibo. Ne scaturì un report in cui gli antropologi raccomandarono di rispettare la volontà dei nativi di rimanere isolati o comunque di limitare al minimo i contatti. Dal 1997 le relazioni sono cessate e, a parte i periodici avvicinamenti di alcuni pescatori di frodo, non si hanno notizie ufficiali di scambi e approdi, salvo un’altra tragica vicenda che nel 2006 ha visto l’uccisione di due pescatori.
Può una società decidere di vivere in completo isolamento dal resto del mondo? Il caso di North Sentinel non è certo l’unico. Nel 2009, il Forum permanente sui popoli indigeni dell’Onu ha mappato la condizione dei «popoli in isolamento». Si tratta, secondo le stime, di oltre 200 gruppi o sottogruppi, che vivono pr i nc i pa l mente i n Amazzonia e Nuova Guinea. Alcuni documenti ufficiali, come la Costituzione brasiliana, li definiscono «popoli indigeni in isolamento volontario». Il documento dell’Onu invita a intendere la «volontarietà» come una strategia obbligata di sopravvivenza. Molte di queste società vivono, in effetti, in foreste caratterizzate da un rilevante interesse ambientale e, spesso, economico, per la presenza di risorse minerarie. La loro presenza mette in crisi molte pratiche abituali degli Stati che incorporano i loro territori: impossibile fare censimenti, mappare i territori, intervenire anche in casi di calamità o tragedie. Le autorità indiane, nel caso di Chau, hanno escluso la possibilità di indagare o processare i responsabili del delitto.
Di recente, l’antropologo Eduardo Kohn, autore di una magnifica monografia sui Runa dell’Ecuador, ha elaborato insieme ai nativi un documento, presentato al Forum sul clima di Parigi (2015), in cui propone una sorta di diritto all’isolamento o alla regolazione nativa dei contatti con l’esterno, basato su un peculiare rapporto con la foresta. Kawsak Sacha, espressione nativa che si potrebbe tradurre con «foresta vivente», è una forma di pensiero ecologico che estende la nozione di «persona» a entità non umane e pone in primo piano la questione delle relazioni tra viventi e non viventi, come modalità di vita e protezione della foresta. Rispettare la scelta dell’isolamento (totale o relativo) non significa pensare a popoli marginali che «non hanno mai visto l’uomo bianco» ma è parte di quell’interesse e amore per la diversità della condizione umana che dovrebbe animare il nostro sguardo verso i sentinelesi e gli altri popoli che chiedono, a volte anche con documenti formali, di rispettare la loro volontà.