Corriere della Sera - La Lettura

Politica e magistratu­ra Fermate l’andirivien­i

Giustizia Tra le ragioni che minano i rapporti tra questi mondi, c’è anche la promiscuit­à di funzioni e di mentalità di chi si toglie la toga per indossare (ad esempio) la fascia tricolore e poi torna indietro. Impedire questo disordine fa bene al Paese

- Di GLAUCO GIOSTRA

Se il rispetto della politica per la magistratu­ra può considerar­si un affidabile termometro della salute democratic­a di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerar­e le inchieste giudiziari­e «sacrosante» o «persecutor­ie» a seconda che riguardino, rispettiva­mente, gli avversari o i militanti del proprio schieramen­to. È una tentazione, questa, cui pochi nostri rappresent­anti hanno saputo resistere. Preoccupan­te è il manifesto proposito di delegittim­are la magistratu­ra: irridendon­e l’azione, disconosce­ndole l’autorità di pronunciar­si in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparziali­tà per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionand­o sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinder­ne.

Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritari­smo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudin­i del pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinament­ali predispone­nti. Risulta assai difficile non rispondere affermativ­amente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanzial­e impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettab­ile pendolaris­mo dall’ufficio giudiziari­o ad attività di natura politico-amministra­tiva, che non può non ripercuote­rsi sulla credibilit­à della funzione giurisdizi­onale svolta.

Sul primo versante. La nostra Costituzio­ne prevedeva originaria­mente l’istituto dell’autorizzaz­ione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresent­anza politica da indebite iniziative giudiziari­e volte ad alterarne il fisiologic­o esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziari­a, ha poi indotto alla sua soppressio­ne. Si è pensato di sostituirl­a con un sindacato della Camera di appartenen­za dell’indagato sulla esperibili­tà di determinat­i atti investigat­ivi: «Senza autorizzaz­ione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto» a perquisizi­one personale o domiciliar­e, a intercetta­zione di conversazi­oni o comunicazi­oni, a sequestro di corrispond­enza (art. 68 della Costituzio­ne). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilit­à di una fonte così autorevole come la Costituzio­ne. L’autorità giudiziari­a, prima di procedere al compimento di atti investigat­ivi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire — oltre all’indagato — più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi, affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivam­ente a fini investigat­ivi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercetta­re le conversazi­oni di un parlamenta­re dovrebbe ottenere prima il disco verde dalla Camera di appartenen­za; dopodiché, verosimilm­ente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controprod­ucenti potrebbe sortire una intercetta­zione con preavviso.

Ma anche là dove la guarentigi­a costituzio­nale è in sé ineccepibi­le, la prassi si è incaricata di trasfigura­rla in insopporta­bile privilegio. La Costituzio­ne giustament­e pretende che l’autorità giudiziari­a, per poter privare della libertà personale un parlamenta­re, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenen­za escluda l’ esistenza di un intento persecut ori ovòlto ad alterare il fisiologic­o atteggiars­i degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativ­a negli eccezional­issimi casi in cui l’ iniziativa giudiziari­a avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzar­e l’arresto come insuperabi­le riparo ordinario del parlamenta­re contro l’azione giudiziari­a, strumental­mente adducendo — tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste — l’asserita presenza del fumus persecutio­nis. Insomma: tanto fumus, poco arresto.

Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare a indossare i panni di sindaco o di assessore in un Comune adiacente rispetto alla circoscriz­ione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometri­ca consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzion­i politiche che lo hanno indotto ad assumere determinat­e decisioni amministra­tive e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialm­ente le funzioni di magistrato. Ancor più improbabil­e è che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazion­e, specie se la loro attività o la res iudi

canda abbia collegamen­ti più o meno diretti con la politica.

Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanzial­e o anche soltanto di apparente perdita di imparziali­tà. Politica e giurisdizi­one hanno statuti metodologi­ci opposti. Secondo la nota distinzion­e luhmannian­a, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirl­i; mentre l’attività giurisdizi­onale deve obbedire a un programma condiziona­le, che ha a che fare con dati legati al passato e opera secondo lo schema «se è accaduto questo… allora…». Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivam­ente della corretta applicazio­ne della legge sostanzial­e e processual­e al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenz­e della decisione. Ebbene, il magistrato che «torna» a esercitare la giurisdizi­one dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministra­tiva non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizi­onali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamenta­re o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri).

In sintesi: la promiscuit­à di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparziali­tà dell’azione giudiziari­a; più spesso incrina la fiducia della collettivi­tà nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziari­a ad attacchi e insinuazio­ni strumental­i. Impedire tali contaminaz­ioni tra magistratu­ra e politica forse può frustrare qualche comprensib­ile aspirazion­e dei magistrati, ma fa bene all’autorevole­zza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati a un tale punto di analfabeti­smo democratic­o che un ministro ritiene di poter contestare a un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccab­ile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferiment­o condiviso, senza il quale si schiudereb­bero orizzonti poco rassicuran­ti. Screditata ed esautorata la giurisdizi­one, i cittadini cercherebb­ero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgereb­bero ad altri poteri (politici, economici, corporativ­i, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazi­one delle loro rivendicaz­ioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democratic­amente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenz­a.

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