Corriere della Sera - La Lettura
L’impero portoghese si disfa seguendo i sottotenenti di de Carvalho
Alferes: «sottotenenti». È a tre di loro — primo gradino nella scala gerarchica militare e figure intermedie fra truppe e ufficiali (dunque inevitabilmente impaludati in una sorta di perenne limbo) — che Mário de Carvalho affida il compito di dire tutto l’assurdo delle guerre coloniali: guerre lontane e «minori» ma non per questo meno cruente, con il loro carico di morte, dolore e insensatezza. Anche e soprattutto per un Paese, il Portogallo, il cui glorioso passato di pioniere della colonizzazione stride con un presente di grandeur epigonale (siamo nel 1968 della contestazione studentesca e degli ultimi fuochi della dittatura di Salazar) nel quale i residui avamposti dell’impero altro non sono che luoghi in cui spedire, in divisa, intellettuali dissidenti da rieducare all’ordine e alla disciplina. Due parole che non hanno più senso, come dimostrano le vicende dei tre ufficiali dell’esercito protagonisti degli altrettanti racconti brevi ( C’era una volta un sottotenente, L’ultima cavalcata, A volte il
bene viene per nuocere) riuniti dall’autore portoghese ne I sottotenenti (traduzione di Valentina Socco, Instar libri, 2006), piccolo gioiello narrativo cui non ha arriso la fortuna che meritava. Con sapida ironia e raffinata abilità nel gestire il ritmo narrativo (il primo racconto è una strepitosa prova di bravura nel tenere sulle corde il lettore), de Carvalho scardina le logiche della disciplina militare e il nonsense della vita di frontiera cui sono costretti i reparti dell’esercito lusitano di stanza fra l’Africa sudorientale e la lontanissima propaggine asiatica di Timor Est. Logore regole e violenze insensate la fanno ancora da padrone, ma il destino del Portogallo — e quello della dittatura — sono inesorabilmente segnati.