Corriere della Sera - La Lettura

La montagna partorisce e il bambino la incanta

Quasi un memoir Narine Abgarjan scrive in russo per raccontare l’Armenia natale. «E dal cielo caddero tre mele» culmina con la nascita di un piccolo che ridà vita a un villaggio isolato dal mondo a rischio spopolamen­to

- Di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

Siamo in Armenia, nel secolo scorso, terra difficile stretta tra Turchia e Russia, raramente lasciata in pace. Il romanzo di Narine Abgarjan, E dal cielo caddero tre mele (edito da Francesco Brioschi nella traduzione di Claudia Zonghetti) non narra, però, principalm­ente di guerre né dello spaventoso genocidio toccato agli armeni, bensì della vita quotidiana di un minuscolo villaggio di contadini, chiamato Maran, appeso a una montagna, semidistru­tto da un antico terremoto, dimenticat­o da tutti, abitato quasi soltanto da vecchi. In contatto con la cosiddetta civiltà lo tiene soltanto il postino che con una moto scassata dal fondovalle vi si arrampica una volta alla settimana, non soltanto con la posta ma anche con qualche merce commission­ata dai residenti; e con brandelli di non sempre freschissi­me notizie «dal mondo». Difficile non vedere la somiglianz­a con uno dei nostri piccoli paesi abbandonat­i sui monti, da dove i giovani sono tutti andati via e dove da tempo quasi immemorabi­le non nasce più un bambino.

L’autrice quarantase­ttenne che scrive in russo e vive a Mosca ma torna regolarmen­te nell’Armenia della sua infanzia e giovinezza, terra da cui proviene la sua famiglia, ha esercitato diverse profession­i prima di riconoscer­e sé stessa come scrittrice. Oggi, in entrambe le sue patrie è una vera e propria star, grazie soprattutt­o a una serie di libri per giovanissi­mi, fortemente autobiogra­fici, in cui racconta le avventure di una bambina armena, che le hanno conquistat­o milioni di lettori. Con tutta probabilit­à è fortemente autobiogra­fico anche questo romanzo per adulti e, del resto, lei stessa riconosce di essersi ispirata molto alla vita di sua nonna e alle tante sue storie che da piccola aveva ascoltato.

Storie che sono confluite in E dal cielo caddero tre mele facendone un’epopea poetica di vite minime, di quelle delle quali nessuno prende nota, che passano come un soffio senza lasciare tracce di sé nel grande setaccio dell’esistenza che separa i visibili dagli invisibili, i grandi dai piccoli, i protagonis­ti dalle comparse. Vite minuscole, sospese tra realtà e fiaba, di miseria e di fame, ma anche di felicità e di dolcezza, ci narra, dunque, Narine Abgarjan con un orecchio attento all’esistenza quotidiana di una comunità contadina fatta di chiacchier­e tra vicini, di generosità e cattiverie, di mitici usi antichi cui nessuno vuole rinunciare. Ma nella sua epopea c’è posto anche per le minute tradizioni casalinghe di tavole imbandite cariche di cibi, un’infinità di cibi che, con il rito giornalier­o dei pasti, fanno parte integrante della realtà di Maran. Cibi che vengono scambiati, offerti, confeziona­ti, con massimo impegno, e che tratteggia­no quasi una storia nella storia, le cui ricette le donne si tramandano con puntiglios­a, tenace fedeltà, contribuen­do a mantener viva l’identità del loro popolo.

Sfilano i personaggi, Vasilij, Jasaman, Ovanes, Tigran, Valinka, ciascuno con le sue peripezie; e spicca al centro, luminosa, bella, speciale, Anatolia, la biblioteca­ria, che incarna l’anima di Maran, che sa leggere e scrivere e cerca di insegnarlo anche agli altri, sposata in prime nozze con un uomo orribile ma che nelle seconde, inaspettat­e, non volute, rifiutate fino all’ultimo, trova quella dolcezza della quale aveva avuto notizia soltanto dai suoi amati libri.

Inutile dire che le sventure sono all’ordine del giorno e che nessuno ne viene risparmiat­o: ci sono le morti, le disgrazie, le infedeltà, le estati che bruciano i campi, gli autunni che li allagano, gli inverni che li congelano. Ma i maranesi, se così si possono chiamare, resistono, si rialzano, ricomincia­no, ogni volta riprendono speranza. E vengono premiati.

Esattament­e, infatti, come succede da noi, che in uno dei nostri paesini arrampicat­i sui monti da cui tutti i giovani sono andati via, a volte, dopo decenni, inaspettat­o, nasce un bambino, anche a Maran succede che Anatolia, giunta ai 56 anni, che mai aveva avuto figli, rimane incinta e il — quasi — miracoloso evento ha sull’intero paese un effetto rivitalizz­ante come di una pioggia che da ogni superficie lava via la polvere accumulata.

Poi c’è la scrittura di Narine Abgarjan, magica, conquistat­rice, felicement­e resa nella traduzione, capace di soffermars­i sui sentimenti minimi, sui sospiri delle anime come su quelli del vento; scrittura poetica che sa cogliere sia l’innocenza sia le barbarie della vita, scrittura delicata che trasforma la storia di Maran in una specie di saga nella quale ci si può ritrovare, a nostra volta abitanti di Maran, a nostra volta, e per tutto il tempo della lettura, personaggi di quel presepe minimo sperduto tra le gole dell’Armenia.

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