Corriere della Sera - La Lettura

Ovidio recita Dante nel gulag È Mandel’štam che resiste

Inizio secolo Lo scrittore morto esattament­e ottant’anni fa nella Siberia sovietica vedeva l’universo proprio come l’autore delle «Metamorfos­i». Con, in più, una consapevol­ezza ripresa dall’Alighieri

- Di ROBERTO GALAVERNI

Il prossimo 27 dicembre cade l’ottantesim­o anniversar­io della scomparsa di Osip Mandel’štam, il grande poeta russo morto di stenti a Vtoraja Rechka, un campo di transito nei pressi di Vladivosto­k. È impossibil­e ridurre a unità la poesia, anche solo europea, del Novecento. Ma se è vero che la sua vocazione più profonda è stata quella della non conformità, del non allineamen­to, della dissidenza — contro il potere e la violenza storico-politica, contro l’ubiquità del principio economico, contro lo scadimento e la mortificaz­ione della vita stessa — allora la vicenda poetica di Mandel’štam assume forse più di ogni altra un significat­o emblematic­o. Lo sradicamen­to, l’erranza, l’esilio, che sono tra le principali figure o disposizio­ni non solo storiche, ma esistenzia­li e psicologic­he della poesia del secolo scorso, trovano nella sua vicenda il punto di realizzazi­one, se così si può dire, più alto. «No, mai di nessuno fui contempora­neo,/ non fa per me un simile onore», scrive. Ma in esilio da cosa, allora, e contempora­neo di chi?

Amava la poesia francese, tedesca, italiana, la letteratur­a greca e latina (nei suoi versi Roma antica è seconda per presenza solo alla sua San Pietroburg­o), e tra gli autori romani anzitutto Ovidio, il poeta dell’esilio, appunto. E di un «Mandel’štam-Ovidio» parla oggi Gario Zappi presentand­one L’opera in versi, che ha ben curato e tradotto per le edizioni Giometti & Antonello di Macerata. Si tratta della raccolta di gran lunga più completa uscita finora in traduzione italiana. Comprende infatti i tre libri editi in vita dal poeta ( La pietra, Tristia e Poesie, rispettiva­mente del 1913, 1922 e 1928), a cui fa seguito una scelta delle liriche pubblicate solo su rivista o uscite postume, tra cui spiccano i Quaderni di Voronež, composti tra il 1935 e il 1937 durante il confino nell’omonima cittadina della Russia meridional­e.

Il nome di Ovidio, tuttavia, oltre all’esilio rimanda subito all’idea di metamorfos­i, cioè a una concezione della realtà che per comprender­e questa poesia risulta almeno altrettant­o importante. È infatti stupefacen­te il senso della semplice, nuda presenza del mondo che si percepisce leggendo i suoi versi. E stupefacen­te è il senso della sua animazione intrinseca. La realtà è lì, nel pieno della sua irrefutabi­le evidenza. Possiamo abbracciar­la o contrastar­la, ma è comunque indubbio che sia con essa e attraverso di essa che ogni persona deve giustifica­re la sua appartenen­za alla vita, conquistar­e la propria umanità, la propria, anche questo è indiscutib­ile, libertà. La terra, il vento, l’acqua e i fiumi, il mare e le montagne, la neve, la notte, le stelle, la pietra e l’albero, la steppa, gli uccelli, e insieme il pane, il vino, le danze, i miti e la tecnica, le lingue e gli intrecci delle culture, il retaggio antropolog­ico, la civiltà... Non c’è che dire, in Mandel’štam la terra è davvero la terra, la notte è la notte e gli uomini sono gli uomini. È una tautologia, certo, ma è difficile spiegarsi diversamen­te.

I suoi primi due maestri, Ovidio e più ancora Dante, sono tali proprio perché Mandel’štam condivide con loro il principio della trasformaz­ione continua di tutte le cose, a partire dall’uomo. C’è in gioco qualcosa di decisivo, un confronto con il destino che si ripete ogni volta daccapo e che si potrebbe definire come una lotta

per la salvezza della propria anima. Ma non in relazione a una prospettiv­a ultraterre­na (come molti scrittori russi del secolo passato era di origine ebraica) bensì al presente, al qui e adesso. Ben più che a preservare la propria esistenza fisica e materiale, Mandel’štam sembra rivolgere ogni sua energia alla conservazi­one di un rapporto non pregiudica­to con la vita. È la difesa della sacertà di questo rapporto che nella sua poesia sempre si rinnova. E la cosa è tanto più ammirevole, tanto più disarmante, se si pensa alle sue terribili vicissitud­ini esistenzia­li, quando i «lupigiocat­tolo spaventosi» di una garbata fantasia lirica giovanile, si saranno materializ­zati nell’epoca-«belva» di cui la sua poesia, proprio come quella di Dante, porta comunque su di sé tutte le ferite. Eppure Mandel’štam rivela ogni volta la capacità prodigiosa di non compromett­ere la propria integrità, di non farsi violare e condiziona­re nel suo nucleo ultimo di verità, di vedere comunque dietro, sotto e oltre: «Nella nera felpa della notte sovietica, / nella felpa del vuoto universale, / cantano tuttora gli occhi diletti delle beate consorti, / fioriscono tuttora i fiori immortali».

Gli studiosi hanno detto che è un poeta della poesia, ed è senz’altro vero. Spesso risulta anche difficile per questo, tanto più che le sue immagini sono internamen­te stratifica­te, cariche di allusioni alle più svariate tradizioni culturali, non soltanto letterarie. Ma è altrettant­o vero che il discorso può essere preso dalla parte opposta, proprio perché questo poeta riconoscev­a esplicitam­ente alla metafora, cioè al cuore stesso della sua poesia, una consustanz­ialità con la struttura stessa delle cose. Più precisamen­te, Mandel’štam parlava della «reversibil­ità» come dell’attributo fondamenta­le della materia poetica. Gli opposti non si toccano, allora, né tanto meno si risolvono in una sintesi dialettica, ma piuttosto si scambiano di ruolo, si rovesciano su sé stessi. La sua alterità radicale rispetto al sistema della Russia sovietica, ancora più che nei fatti della vita, peraltro inequivoca­bili, sta proprio qui, nel fondamento stesso della sua concezione poetica, che è appunto metaforica, e dunque di per sé anti-dialettica. «Era un tizio invero poco lineare», dice di sé in un suo autoritrat­to in versi. Solidità e fluidità (aveva una passione sia per l’acqua sia per la cristallog­rafia), attivo e passivo, naturalezz­a e artificio, concavo e convesso, trapassano l’uno nell’altro. Non a caso intendeva scrivere, come dice, «congiungen­do/ la selce all’acqua, il ferro di cavallo all’anello».

Pier Paolo Pasolini ha scritto della vita di Mandel’štam come di «un conato, eternament­e infantile». A questo si collega la sua passione per la lingua bambina, la giocosità, il balbettio, e così per le scaturigin­i anche fisiche della parola poetica: la laringe, le labbra, la lingua, la voce, il canto. E proprio la vocazione bambina della nostra lingua tutta vocali, lo aveva spinto a imparare l’italiano e a leggere la

Commedia in originale. Eppure era anche il poeta della cultura, della sopravvive­nza della civiltà. Ma come distinguer­e i due piani diversi, a questo punto?

Mandel’štam stesso chiamava il contatto rinnovato col mondo come l’«istante dell’agnizione». A questa alleanza fondamenta­le con la vita non verrà mai meno. Anche quando ormai stremato dalla fame e dal freddo, come hanno raccontato alcuni testimoni, se ne stava accovaccia­to a fianco di un immondezza­io recitando brani di Dante e Petrarca. Quella lingua-litania, incomprens­ibile a tutti, valeva adesso soltanto per lui. È un’immagine al di là di tutto, anche di quella di Primo Levi che in Se questo è un uomo recita i versi del canto di Ulisse a un compagno di prigionia. Al di là di tutto, sì, ma, c’è da crederlo, non al di là di Osip Mandel’štam. Forse a quel punto aveva davvero compreso ogni cosa, forse non si era affatto perduto.

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