Corriere della Sera - La Lettura
Ovidio recita Dante nel gulag È Mandel’štam che resiste
Inizio secolo Lo scrittore morto esattamente ottant’anni fa nella Siberia sovietica vedeva l’universo proprio come l’autore delle «Metamorfosi». Con, in più, una consapevolezza ripresa dall’Alighieri
Il prossimo 27 dicembre cade l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Osip Mandel’štam, il grande poeta russo morto di stenti a Vtoraja Rechka, un campo di transito nei pressi di Vladivostok. È impossibile ridurre a unità la poesia, anche solo europea, del Novecento. Ma se è vero che la sua vocazione più profonda è stata quella della non conformità, del non allineamento, della dissidenza — contro il potere e la violenza storico-politica, contro l’ubiquità del principio economico, contro lo scadimento e la mortificazione della vita stessa — allora la vicenda poetica di Mandel’štam assume forse più di ogni altra un significato emblematico. Lo sradicamento, l’erranza, l’esilio, che sono tra le principali figure o disposizioni non solo storiche, ma esistenziali e psicologiche della poesia del secolo scorso, trovano nella sua vicenda il punto di realizzazione, se così si può dire, più alto. «No, mai di nessuno fui contemporaneo,/ non fa per me un simile onore», scrive. Ma in esilio da cosa, allora, e contemporaneo di chi?
Amava la poesia francese, tedesca, italiana, la letteratura greca e latina (nei suoi versi Roma antica è seconda per presenza solo alla sua San Pietroburgo), e tra gli autori romani anzitutto Ovidio, il poeta dell’esilio, appunto. E di un «Mandel’štam-Ovidio» parla oggi Gario Zappi presentandone L’opera in versi, che ha ben curato e tradotto per le edizioni Giometti & Antonello di Macerata. Si tratta della raccolta di gran lunga più completa uscita finora in traduzione italiana. Comprende infatti i tre libri editi in vita dal poeta ( La pietra, Tristia e Poesie, rispettivamente del 1913, 1922 e 1928), a cui fa seguito una scelta delle liriche pubblicate solo su rivista o uscite postume, tra cui spiccano i Quaderni di Voronež, composti tra il 1935 e il 1937 durante il confino nell’omonima cittadina della Russia meridionale.
Il nome di Ovidio, tuttavia, oltre all’esilio rimanda subito all’idea di metamorfosi, cioè a una concezione della realtà che per comprendere questa poesia risulta almeno altrettanto importante. È infatti stupefacente il senso della semplice, nuda presenza del mondo che si percepisce leggendo i suoi versi. E stupefacente è il senso della sua animazione intrinseca. La realtà è lì, nel pieno della sua irrefutabile evidenza. Possiamo abbracciarla o contrastarla, ma è comunque indubbio che sia con essa e attraverso di essa che ogni persona deve giustificare la sua appartenenza alla vita, conquistare la propria umanità, la propria, anche questo è indiscutibile, libertà. La terra, il vento, l’acqua e i fiumi, il mare e le montagne, la neve, la notte, le stelle, la pietra e l’albero, la steppa, gli uccelli, e insieme il pane, il vino, le danze, i miti e la tecnica, le lingue e gli intrecci delle culture, il retaggio antropologico, la civiltà... Non c’è che dire, in Mandel’štam la terra è davvero la terra, la notte è la notte e gli uomini sono gli uomini. È una tautologia, certo, ma è difficile spiegarsi diversamente.
I suoi primi due maestri, Ovidio e più ancora Dante, sono tali proprio perché Mandel’štam condivide con loro il principio della trasformazione continua di tutte le cose, a partire dall’uomo. C’è in gioco qualcosa di decisivo, un confronto con il destino che si ripete ogni volta daccapo e che si potrebbe definire come una lotta
per la salvezza della propria anima. Ma non in relazione a una prospettiva ultraterrena (come molti scrittori russi del secolo passato era di origine ebraica) bensì al presente, al qui e adesso. Ben più che a preservare la propria esistenza fisica e materiale, Mandel’štam sembra rivolgere ogni sua energia alla conservazione di un rapporto non pregiudicato con la vita. È la difesa della sacertà di questo rapporto che nella sua poesia sempre si rinnova. E la cosa è tanto più ammirevole, tanto più disarmante, se si pensa alle sue terribili vicissitudini esistenziali, quando i «lupigiocattolo spaventosi» di una garbata fantasia lirica giovanile, si saranno materializzati nell’epoca-«belva» di cui la sua poesia, proprio come quella di Dante, porta comunque su di sé tutte le ferite. Eppure Mandel’štam rivela ogni volta la capacità prodigiosa di non compromettere la propria integrità, di non farsi violare e condizionare nel suo nucleo ultimo di verità, di vedere comunque dietro, sotto e oltre: «Nella nera felpa della notte sovietica, / nella felpa del vuoto universale, / cantano tuttora gli occhi diletti delle beate consorti, / fioriscono tuttora i fiori immortali».
Gli studiosi hanno detto che è un poeta della poesia, ed è senz’altro vero. Spesso risulta anche difficile per questo, tanto più che le sue immagini sono internamente stratificate, cariche di allusioni alle più svariate tradizioni culturali, non soltanto letterarie. Ma è altrettanto vero che il discorso può essere preso dalla parte opposta, proprio perché questo poeta riconosceva esplicitamente alla metafora, cioè al cuore stesso della sua poesia, una consustanzialità con la struttura stessa delle cose. Più precisamente, Mandel’štam parlava della «reversibilità» come dell’attributo fondamentale della materia poetica. Gli opposti non si toccano, allora, né tanto meno si risolvono in una sintesi dialettica, ma piuttosto si scambiano di ruolo, si rovesciano su sé stessi. La sua alterità radicale rispetto al sistema della Russia sovietica, ancora più che nei fatti della vita, peraltro inequivocabili, sta proprio qui, nel fondamento stesso della sua concezione poetica, che è appunto metaforica, e dunque di per sé anti-dialettica. «Era un tizio invero poco lineare», dice di sé in un suo autoritratto in versi. Solidità e fluidità (aveva una passione sia per l’acqua sia per la cristallografia), attivo e passivo, naturalezza e artificio, concavo e convesso, trapassano l’uno nell’altro. Non a caso intendeva scrivere, come dice, «congiungendo/ la selce all’acqua, il ferro di cavallo all’anello».
Pier Paolo Pasolini ha scritto della vita di Mandel’štam come di «un conato, eternamente infantile». A questo si collega la sua passione per la lingua bambina, la giocosità, il balbettio, e così per le scaturigini anche fisiche della parola poetica: la laringe, le labbra, la lingua, la voce, il canto. E proprio la vocazione bambina della nostra lingua tutta vocali, lo aveva spinto a imparare l’italiano e a leggere la
Commedia in originale. Eppure era anche il poeta della cultura, della sopravvivenza della civiltà. Ma come distinguere i due piani diversi, a questo punto?
Mandel’štam stesso chiamava il contatto rinnovato col mondo come l’«istante dell’agnizione». A questa alleanza fondamentale con la vita non verrà mai meno. Anche quando ormai stremato dalla fame e dal freddo, come hanno raccontato alcuni testimoni, se ne stava accovacciato a fianco di un immondezzaio recitando brani di Dante e Petrarca. Quella lingua-litania, incomprensibile a tutti, valeva adesso soltanto per lui. È un’immagine al di là di tutto, anche di quella di Primo Levi che in Se questo è un uomo recita i versi del canto di Ulisse a un compagno di prigionia. Al di là di tutto, sì, ma, c’è da crederlo, non al di là di Osip Mandel’štam. Forse a quel punto aveva davvero compreso ogni cosa, forse non si era affatto perduto.