Corriere della Sera - La Lettura
Cinque attori e un cane La tragedia riguarda tutti
Under 30 Carmelo Alù, 28 anni, vincitore del premio per registi neodiplomati del Metastasio di Prato, traduce e mette in scena «Cani morti» di Jon Fosse
Una famiglia spinta al punto di rottura. La nebbia dei fiordi. Atmosfere dalle sfumature tetre, inquietanti. In Cani morti ( The Dead Dogs, 2004), i primi indizi sulla direzione che prenderà il racconto del drammaturgo norvegese Jon Fosse ( Sogno d’autunno, Io sono il vento, Inverno) arrivano con la scomparsa di un cane, il cui destino è suggerito dal titolo. Il testo, inedito in Italia, è stato scelto e tradotto da Carmelo Alù, 28 anni, vincitore quest’anno del bando «Davanti al pubblico» — progetto per giovani registi neodiplomati organizzato dal Teatro Metastasio di Prato —, per la messa in scena, in prima nazionale, al Teatro Magnolfi di Prato (18-23 dicembre).
«La trama — spiega a “la Lettura” Alù, laurea in Lettere, un passato da attore, un presente da regista — è semplice: una madre e un figlio abitano da soli in un paesino sui fiordi. Il cane del ragazzo, cui il giovane è profondamente legato, un giorno scompare. “È scappato, non lo fa mai”, dice alla madre che lo esorta ad andarlo a cercare. Un’ouverture che racconta già tutto, che contiene in nuce il frastuono della tragedia, dell’ineluttabile». A differenza di altri testi del drammaturgo norvegese, The Dead Dogs, prosegue il regista, «ha una trama meno “aperta”, che si presta meno a varie, possibili interpretazioni. Anche i personaggi, che in Fosse
Il giovane uomo. La madre. L’amico. La sorella. Il cognato. Sono i cinque personaggi (affidati rispettivamente a: Domenico Macrì, Alessandra Bedino, Emanuele Linfatti, Caterina Fornaciai, Daniele Paoloni) che si muovono su un palco scarno: un tavolo, tre sedie, un proiettore da 5 mila watt su uno stativo, le bandiere come ante. «Ho utilizzato elementi di scena per evocare la casa e la finestra, l’unico elemento visivo forte nel testo. Un oblò attraverso cui tutti i personaggi guardano “fuori”, lo spiraglio che collega l ’a mbiente domestico co n l ’e s te r no. Quella finestra solo evocata lascia allo spettatore la possibilità di immaginarla a suo modo, così come ogni personaggio suggerirà a chi guarda il suo posto all’interno della messinscena».
Lo spettacolo ha debuttato in forma di studio in due festival toscani estivi, Armunia e Kilowatt. Un modo, osserva Alù, «per testare in anteprima le reazioni del
pubblico. E individuare i passaggi da mettere meglio a fuoco. Fino a qualche anno fa — riflette — consideravo Fosse una scelta “ribelle”. Oggi le sue pause, i silenzi rarefatti che abitano i personaggi, rappresentano una sfida. Il rischio di annoiare lo spettatore era altissimo...». Invece? «Invece, con gli attori sono partito in modo aggressivo, critico verso i personaggi. Volevo evitare di cadere nel tranello di parlare della società di oggi ma non
alla società di oggi. The Dead Dogs non è un dramma, è una tragedia in cui chiunque, anche chi non ha un cane, anche chi con la propria madre non ha un rapporto come quello del protagonista con la sua — una continua alternanza tra accoglienza e contrasto — può riconoscersi. Fosse non risulta mai interessato al passato dei suoi personaggi, quando sembrano poter acquistare una tridimensionalità si autocensurano, la loro psicologia può essere solo immaginata».
Un lavoro di regia complesso, ripagato dal riscontro positivo del pubblico: «È piaciuta l’idea del “giallo”, la scomparsa del cane fa fare un salto sulla sedia agli spettatori, li coinvolge. È bello e insolito come un fatto piccolo e privato riesca a diventare “pubblico”». Dirigere cinque attori, anche se, precisa, «in scena non sono mai più di tre», è stato impegnativo. La preoccupazione più grande? «Che nessun personaggio assomigliasse a un altro: nei testi di Fosse, dove tutti parlano poco e sembrano custodire segreti vitali, il rischio è alto. Cani morti è costellato di didascalie, pause, silenzi che vanno “interpretati”. Il testo prevede una panca in scena, su cui Fosse posiziona sempre un personaggio. Ho preferito traslarla in una “geometria del tavolo”, cercando di creare delle guerre a ogni dialogo tra i protagonisti». Torna poi a sottolineare l’importanza dell’immaginazione: «Le serie tv, di cui sono un grande consumatore, e il cinema, non solo d’azione, hanno abituato il pubblico a un intrattenimento immediato. Una bulimia di storie, personaggi, emozioni che il teatro non può soddisfare. In cambio offre però a chi siede in platea tutto il potere della fantasia».