Corriere della Sera - La Lettura
Gli occhi come la voce e Maria Callas canta ancora sé stessa
Lirica Vanna Vinci dedica alla celebre diva e icona la sua nuova graphic novel. Vita e opera si confondono
Gli occhi! Sono forse gli sguardi di Maria Callas, sempre mutevoli, il tratto espressivo più vicino al mistero della sua voce, l’unico che il disegno possa rappresentare, quello che più ci rende l’anima della grande cantante, nella nuova graphic novel di Vanna Vinci Io sono
Maria Callas. Gli occhi dapprima timidi e insicuri della ragazza grassa e piena di brufoli, gli occhi fieri delle prime affermazioni; gli occhi da cui si scheggiano le lacrime della solitudine e della disfatta, occhi a un tempo regali e disperati. Basta seguirne la resa emotiva per cogliere, di tavola in tavola, la complessa interazione tra la donna e l’artista: tra Maria e «la Callas». Tra la Callas e la sua leggenda.
Per come fiammeggiano, per come commuovono, gli occhi dell’infelice artista sono qui, spesso, anche la ragione prima per cui tante tavole, non solo nel loro ricreare fotografie note, così terribilmente si imprimono nella mente del lettore. Callas che sogguarda dal sipario della Scala vuota, chiusa nel peplo delle eroine greche; Callas furente, Callas statuaria; Callas vinta e ferita, «non» nascosta dalla veletta, dopo la famigerata interruzione della Norma a Roma nel ’58; Callas allucinata e come travolta (anche graficamente) nel turbine della mondanità e dello stordimento chimico; Callas sublime Medea nel film di Pasolini; Callas prostrata in un letto, i pensieri dissolti nelle nubi della narcosi: «I ricordi. La vita. Il dolore. L’angoscia (...) Mi perdevo completamente per ore. Era come morire». Callas radiosa icona, quasi deificata, sullo sfondo dei gabbiani, che soli salutano le sue ceneri, sparse nelle onde amiche del mare Egeo.
La storia della donna e quella della diva scorrono intrecciate: scandite, vera finezza, secondo lo schema della tragedia greca. La vicenda si dipana per Episodi e Stasimi, ovvero per successioni narrative e sospensioni «corali». Il coro che commenta cambia di volta in volta, composto dai personaggi-chiave di ogni Episodio e da altri che l’autrice chiama a raccolta, in un affollarsi sovratemporale di citazioni e testimonianze. Prima l’acidità dei familiari e i primi insegnanti. Poi grandi direttori, critici, colleghi: «Maria cantava come il Padre eterno» confida Giuseppe Di Stefano. Parlano Joan Sutherland e Renata Tebaldi, De Sabata e Giulini, Visconti e Pasolini, ma anche Giuseppe Verdi («Per il cinquantenario della mia morte cantò La tra
viata: fu sublime»); perfino Euripide: «Una grande forza drammatica. Mi sarebbe piaciuto sentirla recitare la mia Medea a Epidauro...».
Gli Episodi incalzano, anche drammaticamente, alternando scene di opere, rievocate con lievità di dettagli (i fiori nella
Traviata di Visconti...) e scene di vita: gli amori, le lotte, Meneghini e Onassis, la grandezza e la fragilità, la depressione, l’abbandono. Parola e canto a volte invadono la tavola come aforismi o non scontati rinvii alle opere, da Tiefland di Eugen d’Albert a «Giorno non vidi mai sì fiero e bello» (propriamente, scena tra Macbeth, Banco e le streghe) alla prova di Macbeth con Toscanini. A volte l’artista, come da un’altra dimensione, guarda la propria vita, raffigurata su pitture vascolari. «Segue» addirittura il proprio funerale, fantasma avvolto nel nero, già circonfuso dal mito: «Una leggenda, cos’è una leggenda? In fondo, io credo di essere stata un vero essere umano».