Corriere della Sera - La Lettura

La mia voce è Annie Ernaux

Lorenzo Flabbi si è innamorato della prosa dell’autrice francese al punto da diventarne l’editore in Italia. «Ho riscritto anche 18 versioni diverse di un suo paragrafo»

- di IDA BOZZI

Con 170 voti della giuria, Lorenzo Flabbi si è aggiudicat­o la seconda edizione, quella del 2018, del Premio per la traduzione de «la Lettura», per la sua versione del romanzo Una donna, pubblicato da L’orma (l’anno scorso, la prima edizione era stata vinta da Fabio Cremonesi per Le no

stre anime di notte di Kent Haruf, NN Editore): è il primo classifica­to su 132 traduttori votati.

Quello di Flabbi con Ernaux è un legame stretto, dal momento che il traduttore non è solo la voce italiana della scrittrice francese — ha tradotto sei dei suoi romanzi — ma è anche il suo editore, cofondator­e de L’orma con Marco Federici Solari. Per la traduzione di un altro libro, Memoria di ragazza, lo stesso Flabbi ha vinto anche il Premio Stendhal. Quasi una simbiosi, con una storia curiosa, come racconta lo stesso traduttore. Come ha incontrato la scrittura di Annie Ernaux?

«Ho vissuto in Francia e La place (in Italia Il posto) era un libro di casa. Ricordo che quando nel 2008 uscì Gli

anni, fu un libro di cui tutti parlammo, all’università e tra amici. Quando abbiamo fondato la casa editrice, credevo di essermi perso l’uscita italiana de Il posto: immaginate quando ci dissero che i diritti erano ancora liberi! Fu la prima battaglia anche come traduttore. Mi dico: lo voglio fare io. E così lo traduco. Ma quando arrivo alla fine, rileggo e mi metto le mani nei capelli: ha sintassi e vocabolari­o miei, non suoi. Bene, abbiamo rimandato l’uscita di sei mesi e l’ho ritradotto da capo». Quali erano le difficoltà?

«Le parole di Annie Ernaux sono scolpite come pietre. Ho dovuto appiattire la mia lingua, perché lei dice di sé che la sua lingua è piatta: beninteso, piatta come un coltello. Con differenze stilistich­e da un libro all’altro,

anche se pare che racconti un unico mondo. Lei ha “la frase esatta”». Il libro per cui ha vinto il premio de «la Lettura», «Una donna», è stato più difficile degli altri?

«Una donna è intriso di dolore, rispetto ad altri in cui si trovano varie emozioni, come la vergogna, la rabbia. C’è il lutto per la morte della madre, con l’identifica­zione fin da bambina con il corpo della donna, e momenti spietati, nel vedere quello stesso corpo divenuto vecchio in pieno decadiment­o mentale. In termini di scrittura è simile a Il posto, in cui anche il sentimento più violento non è mai edulcorato: il traduttore può avere la tentazione di sollevare il pedale, e invece no. Va spinto in fondo. E poi ci sono termini usati in Normandia, dalla madre, in quel contesto sociale, in quell’ambiente, nel 1952». Un esempio intraducib­ile?

«In una scrittrice come lei la scelta del singolo termine non si riduce ai casi “spettacola­ri”: ci sono i termini popolaresc­hi, ad esempio “i quartieri bassi” per indicare le parti intime, laddove in francese c’era quat’sous ». Vi conoscete? Le ha mai chiesto un consiglio?

«Ho da tempo un ottimo rapporto con lei. Sono perdutamen­te innamorato di Annie Ernaux, che continua a pubblicare con noi nonostante siano scesi in campo altri editori… Quando la traduco mi torco alla scrivania, prendo la traduzione e la rigiro tutta, sono arrivato a fare 18 versioni dello stesso paragrafo. Il punto è tradurla con quella sua stessa tensione, e ci vogliono mesi. Ma ad Ernaux non ho mai chiesto nulla, anche se ci scriviamo. Ognuno deve assumersi la propria responsabi­lità, e se c’è un’ambiguità, nel testo c’è anche un segnale che ti dà l’indicazion­e giusta. E lo trovi».

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