Corriere della Sera - La Lettura
Il fantasma dell'artista
Per restituire mistero e bellezza della creazione, Giulio Paolini ha scelto l’assenza Le sue opere sono alla Fondazione Carriero di Milano
«Ideale è il non visto, qualcosa che si colloca nel punto di fuga di una rincorsa prospettica. Il traguardo è appunto ideale, limite oltre il quale non è dato procedere». Queste parole di Giulio Paolini sono le più efficaci per avvicinarsi alla sua nuova mostra alla Fondazione Carriero di Milano che, già nel titolo, del Bello ideale, restituisce una visione sull’idea di «fare» arte e sulla sua più ampia e complessa idea di rappresentazione e percezione: il non visto, l’assenza, il segreto elevato a forma.
In un gioco di rimandi e rincorse verso l’utopia della Bellezza, la mostra diventa importante non solo per comprendere le visioni di uno dei maestri più raffinati dell’Arte Povera (e uno dei padri dell’Arte Concettuale), ma anche per riflettere sul senso più profondo del dialogo tra sguardo del presente e memoria della Storia. Giulio Paolini sembra fare sue le parole di Salvatore Settis quando ricorda che «il
classico riguarda sempre non solo il passato, ma il presente e una visione del futuro»: guardando al mondo della classicità, l’artista sembra accompagnarci in un sofisticato percorso della memoria, tra richiamo all’antico e indagine verso il destino (disorientante) della contemporaneità. Senza mitologie del nuovo, offre il pensiero di un artista sul senso più autentico del «vedere», come essenza della comprensione del reale.
Giulio Paolini (Genova, 1940) è un protagonista assoluto (e del tutto autonomo) dell’Arte Concettuale: tutto il suo lavoro è orientato a una riflessione dialettica sull’arte, sul rapporto tra opera e spettatore. È lo stesso curatore Francesco Stocchi a chiarire lo spirito della mostra del Bello
ideale: « Si propone di offrire una visione dell’opera di Giulio Paolini da un punto di vista interiore, dove l’artista è invitato a cimentarsi in un esercizio introspettivo, di analisi e scoperta delle proprie fonti di ispirazione. L’intenzione non è quella di raccontare il suo percorso con attitudine nostalgica, ma sottolineare il suo desiderio di uscire dallo scorrere del tempo e collocarsi in una dimensione parallela di eterno presente».
Già, un eterno presente: è proprio quello che si percepisce in questo racconto silenzioso, ricco di riflessioni e suggestioni sul potere dell’arte in quanto evocazione, metafora di bellezza come forza salvifica. Assecondando il pensiero di Platone («La bellezza è l’unica idea visibile»), Paolini dà corpo a questa idea, rifiutando ogni forma di spettacolarità, scegliendo l’assenza, rifuggendo il rumore che accompagna molta produzione artistica dei nostri giorni. Ama essere considerato come un archeologo «intento a scavare senza altre aspettative che non siano quelle di poter insistere nel suo fare e disfare».
La specificità di questa mostra è rappresentata anche dalla scelta delle opere: non le celebrate installazioni, ma alcune opere delle origini, quelle degli anni Sessanta, riproposte in dialogo con gli spazi della Fondazione. Sono i lavori (al primo piano) che hanno fatto da viatico all’identità di Giulio Paolini: i tubetti di colore applicati su tavola e cotone da imballaggio ( Senza titolo, 1961), i cartoncini colorati assemblati sotto plexiglass ( Plakat
Carton, 1962) o, ancora, la tavola di compensato bianco alla quale è unito un gancetto ( Senza titolo, 1964) a rappresentare l’idea del confronto con lo spettatore, in cui, proprio in quel gancio, il fruitore dell’opera può mentalmente inserire ogni possibilità di esposizione.
La mostra è articolata in un percorso tematico che racconta 57 anni di ricerca: ecco dunque al piano terra l’idea del Ri
tratto e Autoritratto, tema centrale dell’arte dell’Occidente e fondamento della poetica di Paolini. Sin dalle prime opere degli anni Sessanta, l’autore ne ha indagato il senso più profondo, lo ha fatto attraverso un’idea ripetuta, anche tormen-
tata, quasi maniacale. E anche con la sottrazione simbolica dell’autore, restituendo quel concetto di mistero che avvolge il mondo della creazione. Lo conferma l’opera ( Monogramma, 1965) in cui si vede soltanto la sagoma, una sorta di fantasma, che dichiara: l’artista è assente. Ma c’è anche un lavoro storico (del 1969-70) nel quale si vede una mano che estrae un biglietto da visita dal taschino di una giacca. Sotto il nome in maiuscolo di GIULIO PAOLINI è impressa la scritta in corsivo Et quid amabo nisi quod aenigma
est?, a voler indicare ironicamente quasi un’identità professionale. « Cosa amerò se non l’enigma? » , oltre a citare una frase di Giorgio de Chirico individua la più intima natura di Paolini, quella di un artista costantemente ossessionato dalla ricerca di una verità che non vuole (e non può) accettare: l’enigma come ragione di vita.
In questo senso, una delle opere che più rappresentano questo concetto è
Controfigura ( critica del punto di vista), del 1981. Si tratta di una riproduzione in bianco e nero di un ritratto dipinto da Lorenzo Lotto su cui Paolini ha sostituito i propri occhi. Ancora una partita di rimandi: l’idea della «controfigura» sta a significare che noi tutti diventiamo, in un gioco delle parti, gli attori principali della messa in scena della fruizione dell’arte. La «verità» dell’opera si sposta non sull’opera in sé e nemmeno sul fare dell’artista, ma sul punto di vista di chi guarda, dello spettatore. «L’opera preesiste all’intervento dell’artista, che è il primo a poterla contemplare», ci ricorda Paolini.
La mostra del Bello ideale rappresenta per la Fondazione Carriero l’ultima tappa di una programmazione in cui tradizionalmente alcuni autori sono messi in dialogo tra loro. Per questa ragione, le opere di Paolini (alcune realizzate apposta per l’occasione) sono qui accompagnate da interventi della scenografa Margherita Palli, che rilegge il lavoro dell’artista ricreando nuovi ambienti e nuove chiavi di rappresentazione. Benché tutto questo, se pur stimolante, possa apparire quasi una forzatura nei confronti di un artista che già lavora sull’idea di spazio, la mostra ne risulta arricchita ed è in sintonia in quel gioco di rimandi e sguardi riflessi dove la «messa in scena dell’arte» resta sempre un nodo centrale.
Con la sezione In superficie, al primo piano, si sviluppa la relazione con il tema della prospettiva nelle sue varie declinazioni. Qui, tra le altre, si scopre un’opera realizzata ad hoc per la mostra: Finis Ter
rae (2018), in cui una cornice dorata e una prospettiva disegnata a matita costruiscono un’idea di orizzonte, nel quale si certifica già anche il concetto di una fine.
Uno di due è la terza sezione: presenta una serie di lavori che indagano il rapporto tra mito e classicità, emblemi di quella bellezza ideale, che di fatto afferma l’incolmabile distanza tra opera d’arte e osservatore. Qui troviamo la ragione del titolo della mostra e in particolare alcune opere emozionanti come Aria (1983-84), un collage fotografico che ritrae un angelo a testa in giù, montato tra sagome di plexiglas: è l’allusione alla caduta di un idolo che evoca la tensione costante fra cielo e terra. E poi due calchi in gesso di Prassitele ( Mimesi, 1975) in un incrocio di sguardi (il doppio è sempre presente in Paolini) e, ancora, la sagoma di Saffo, presenza esplicita della poesia e del suo mito. Infine, un altro calco in gesso della testa del David di Michelangelo: qui, in corrispondenza della pupilla, Paolini inserisce uno specchio. È la trasfigurazione del «vedere». In quell’occhio ci specchiamo, con quell’occhio guardiamo il mondo che ci circonda. Quell’occhio è tutto ciò di cui c’è bisogno: un filo di Arianna.
Come se seguisse lo spirito di Aby Warburg e la sua necessità di creare un atlante in cui le immagini dall’antichità dialogano con il presente, Giulio Paolini sembra dare vita a una nuova Mnemosyne, dove si scardinano ordini e gerarchie per inseguire l’irraggiungibile energia del
Bello ideale (e della sua Verità). Siamo di fronte a una geografia di rimandi nascosti, di assonanze invisibili. Siamo al cospetto del mistero. D’altronde, che cosa può fare di diverso un artista incapace di non amare altro se non l’enigma?