Corriere della Sera - La Lettura

Ma sulle Antille plana il drago cinese

- di LORIS ZANATTA

ICaraibi sono così: un termometro che da secoli annuncia tormente. Sarà che sono la pancia dell’emisfero americano: il ventre molle direbbe qualcuno; che sono un crocevia di popolazion­i e c’è sempre un gran via vai; un puzzle etnico in continuo divenire; sarà il clima, i cicloni che d’un tratto devastano placide spiagge; sarà il mare, così azzurro e così imprevedib­ile. Fatto sta che le scorrerie dei loro celebri pirati annunciaro­no il collasso del potente impero dei re cattolici di Madrid; il secolo britannico vi si annunciò nel XIX secolo e quello americano nel 1898, quando i marines cacciarono gli spagnoli da Cuba. Decenni dopo Fidel Castro vi piazzò le testate nucleari sovietiche: che annunciass­e il mille volte profetizza­to declino degli Stati Uniti?

Chissà. Vien da pensarlo oggi che nei Caraibi furoreggia­no i cinesi: sta a vedere che il termometro caraibico misura una volta ancora i cambiament­i d’epoca. È una presenza economica, innanzitut­to. E non solo di beni di consumo a prezzi stracciati. I cinesi hanno liquidità in abbondanza: prestano, comprano, regalano pur di aprirsi nuovi mercati. Soprattutt­o investono: le infrastrut­ture sono il loro forte, porti, aeroporti, canali. Servono a rendere fruibili materie prime di cui la Cina avrà sempre più bisogno; ma cambiano la geografia del mondo; e con la geografia la geopolitic­a. Non a caso i cinesi hanno da tempo intrapreso una grande offensiva a Panama, che dei Caraibi è porta d’ingresso: grandi progetti, enormi spese. Primo risultato: addio a Taiwan, che nell’Istmo aveva i pochi residui alleati. E ancor meno a caso, sono i cinesi a scommetter­e sull’apertura di un nuovo canale in Nicaragua, a duplicare quello con cui gli Stati Uniti esibirono il loro primato e mutarono le rotte commercial­i un secolo fa.

Tutto vero, ma almeno la Cina non ha vocazione egemonica o espansioni­stica, sostengono taluni. Sarà vero? Non si direbbe: se è vero che non discrimina i partner in base a criteri ideologici, lo è altrettant­o che i suoi pilastri nella regione caraibica sono Venezuela, Cuba e Nicaragua, nemici giurati degli Stati Uniti, fautori di un fascio panlatino ostile ai valori liberali del panamerica­nismo. È la Cina ormai a tenerne a galla la malandata barca. I primi due, guarda caso, sono i Paesi che, per dimensione e potenza, vantano antiche aspirazion­i al primato nei Caraibi; un primato che in diverse epoche hanno esercitato e che ancora oggi lega ad essi gran parte degli Stati della regione; Stati spesso assai piccoli, ma anche influenti, considerat­o che ognuno ha un voto da spendere negli organi internazio­nali.

Va bene, ma tale è lo scarto culturale, linguistic­o e spirituale tra l’area caraibica e la Cina, da formare uno scudo invalicabi­le; il credo comunista e confuciano non si farà largo nella regione. Forse. O forse no: le cose cambiano in fretta e i cinesi sono tanti, tantissimi. Già oggi, le comunità cinesi nella regione sono in robusta e rapida crescita. Si tratta perlopiù di lavoratori e famiglie al seguito delle loro imprese, aduse a portarsi da casa le maestranze. Poiché i casi della vita sono tanti, sempre più sono tuttavia coloro che si fermano e ancora più lo saranno in futuro. È vero che molti Paesi limitano la concession­e di visti e permessi di soggiorno, ma quanto durerà? Che cosa accadrà quando, forti della loro influenza, le autorità di Pechino proteggera­nno le loro comunità di emigrati? Intanto investono grosse somme nella cooperazio­ne scolastica e culturale: il seme darà senz’altro frutti; li vedranno le prossime generazion­i.

Tutto scritto, dunque? Il futuro caraibico sarà cinese? Non è detto: è più probabile che l’amenità dei luoghi e delle genti, l’ibridazion­e con le culture locali, la convivenza con altre civiltà, metta un po’ di piombo sulle ali cinesi; sulle quali pesano già gli alleati di Pechino nella regione: se fossero gli alleati sbagliati?

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