Corriere della Sera - La Lettura
I genocidi non nascono dalla filosofia moderna
Siobhan Nash-Marshall condanna giustamente chi nega le stragi degli armeni. Ma sbaglia nell’incolpare i più noti pensatori occidentali. A suo avviso anche la rivoluzione francese è stata un crimine paragonabile a quelli dei governanti turchi
La negazione di un genocidio è oggi sanzionata quasi ovunque in Europa, con leggi che hanno cercato di dare attuazione alla decisione quadro dell’Unione Europea del 28 novembre 2008 «sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale». In Italia la legge è stata approvata, dopo molte polemiche e la contrarietà di storici e giuristi, nel giugno 2016.
Al di là del possibile risvolto penale — in realtà molto aleatorio e difficilmente praticabile — colpisce nella negazione di un genocidio la violenza psicologica che essa produce nei confronti delle vittime e dei sopravvissuti, privandoli perfino della compassione che ha bisogno, per potersi manifestare, di riconoscere il crimine commesso contro di loro. Se in genere a negare i genocidi sono piccoli gruppi di fanatici o persone legate in qualche forma ai responsabili delle violenze e dei massacri, nel caso del genocidio armeno la negazione è opera di uno Stato — la Turchia — che si sente l’erede di quello che organizzò oltre cento anni fa la violenza contro la minoranza armena residente in Anatolia e in Cilicia.
Contro il negazionismo turco è cresciuta negli anni l’opposizione dell’opinione pubblica internazionale, con prese di posizione di governi e parlamenti, la quasi totalità degli storici che hanno affrontato la questione, un numero sempre più ampio di scrittori, giornalisti e studiosi turchi che hanno rischiato e rischiano, per le loro posizioni, di venire incriminati per offesa all’identità nazionale: uno dei casi più clamorosi fu, nel 2015, quello di Hasan Çemal, nipote di uno dei triumviri che, alla guida del governo ottomano, organizzarono e condussero in porto il genocidio: dopo essere stato educato nel più totale negazionismo ha deciso di conoscere la verità storica e ha denunciato i crimini del nonno e dei dirigenti del «Comitato unione progresso». Del resto all’indomani della resa turca, nel 1918, il governo ottomano che riportò la libertà al proprio popolo, prima che l’avanzata nazionalista dell’esercito di Mustafa Kemal portasse alla creazione della nuova Repubblica di Turchia nel 1923, riuscì a istruire numerosi processi in cui i responsabili dei massacri degli armeni vennero condannati a morte, pur se quasi tutti contumaci.
A ritornare sulla questione del negazionismo turco è adesso Siobhan Nash-Marshall, docente di Filosofia cristiana al Manhattanville College di New York, autrice del libro I peccati dei padri (Guerini e Associati). Convinta che la filosofia debba rivolgersi «con l’intelletto verso l’oggettiva realtà storica concreta: la verità storica», ritiene anche che occorra abbandonare la tradizione cartesiana e degli enciclopedisti francesi e idealisti tedeschi — che ricostruirono il mondo a immagine delle loro idee — riconoscendo che «non c’è nessuna distinzione logica o formale tra rovesciare un Ancien Régime tramite spargimenti di sangue e distruggere un popolo e una
cultura: un genos. Se si è convinti che un’idea possa giustificare l’uccisione di un re… allora non si può non giustificare il genocidio ».
Messa sotto accusa l’intera tradizione filosofica occidentale degli ultimi due secoli e mezzo, e attribuendo a Mill e Bentham, Marx e Bergson, Nietzsche e Sorel di avere preparato il terreno alla violenza genocidaria, la filosofa ritiene una verità storica provata che il genocidio armeno sia «in atto da più di un secolo». Negare un genocidio è già di per sé, infatti, un atto genocidario, e non si può accettare che il genocidio armeno e la politica negazionista turca siano eventi distinti, se non temporalmente. Con uno strano sillogismo si conclude che «se è vero che le politiche negazioniste… sono parte inte
grante del Genocidio armeno… ne consegue che il Genocidio armeno è ancora in atto». Non può mancare, naturalmente, una definizione del genocidio — in generale, non solo di quello armeno — che sembra sfidare tutte quelle finora suggerite da giuristi, storici, sociologi e filosofi. Il genocidio, infatti, «è un esempio tremendo e radicale di male morale. L’irrazionalità è una delle caratteristiche distintive del male morale». Quindi è futile cercare di spiegare razionalmente le dinamiche dei genocidi. E si attribuisce a un generico «male morale», incarnato nei responsabili politici della violenza, ma presumibilmente condiviso da gran parte del popolo che vi ha partecipato o ha permesso che avvenisse, la spiegazione di quanto avvenuto. Con il che la ricerca della verità storica passa decisamente in secondo piano.
Nel libro di Nash Marshall, naturalmente, ci sono anche molte cose interessanti, ricostruzioni di eventi, osservazioni sulla identità turca e sul nazionalismo, sul primo dopoguerra (dal fallimento dei progetti wilsoniani all’alleanza tra Kemal e la Russia bolscevica): ma tutto sembra perdere di significato di fronte alla reiterata convinzione che il negazionismo post-genocidario è un nuovo genocidio, da attribuire a politici malvagi corrotti dalla filosofia moderna.