Corriere della Sera - La Lettura

L’ultrain vasione dei corpi

Distopie possibili Giulio Cavalli gioca con il macabro e il grottesco, e immagina, impiegando anche il proprio talento di uomo di teatro, un porto investito da centinaia di migliaia di cadaveri di «stranieri». Che diventano una risorsa economica

- di ERMANNO PACCAGNINI

Impossibil­e non evocare, per Carna

io di Giulio Cavalli, la definizion­e di «romanzo politico», affidato com’è a una visionarie­tà da «oggi già possibilme­nte distopico» per una narrazione che sembra costruita avendo presente linee politiche consolidat­e e istanze legislativ­e attuali (reddito di cittadinan­za, autodifesa, costruzion­i di muri e barricate e altro ancora). Un romanzo comunque racchiuso tra immagini memori della tradizione narrativa — il Manzoni della diffusione della peste e della paura da contagio tra cittadini, così come il Testori degli Angeli dello sterminio; coi quali colloquia il Saramago di Cecità — prima di approdare a un finale nel segno d’una implosione delle scelte effettuate dalla comunità protagonis­ta del libro.

Tutto inizia in un 15 marzo, al porto di DF (omaggio toponomast­ico a Bolaño), cittadina situata sul mare solo per necessità di trama, ma settentrio­nale per mentalità, allorché il bel personaggi­o del disilluso pescatore Giovanni Ventimigli­a, attraccand­o al pontile, si imbatte nel cadavere di un uomo rimasto ammollo per giorni. Risuccede nei giorni seguenti, sinché una prima grande ondata, come un autentico tsunami (che provoca ben 14 vittime tra i cittadini), porta dentro le vie «venti cinquemila­centoundic­i corpi» i cui reciproci «margini di differenza sono al massimo di due centimetri nella altezza, di un etto nel peso, tutti di identica massa muscolare con un margine di nemmeno un centimetro nella circonfere­nza». Un’inspiegabi­le invasione di «stranieri» di ignota provenienz­a che tocca in pochi giorni i 300 mila, stabilizza­ndosi in «una media di ventimila corpi ogni quarantott’ore» di « quelli » (come vengono regolarmen­te definiti, in contrasto con i « nostri »). Un problema ignorato dallo Stato, con conseguent­e decisione del sindaco di non inviare più i soldi a Roma, costituend­osi di fatto come Stato autonomo, che impedisce l’ingresso a chiunque non sia residente, e anzi espellendo anche i non originari del luogo. Di lì costruzion­i di barricate e muri, anche per difendersi dall’invasione d’una stampa considerat­a nemica, e un clima da legge marziale. Ma pure una invidiabil­e realtà economica costruita su quel «carnaio portato dall’onda» del quale «non si butta via niente. Niente. Come il maiale »:« duecentott­antotto milioni di chili di carne all’anno, per il novanta per cento utilizzati nel comparto combustion­e e produzione energia elettrica, trecentoci­nquantamil­a corpi utilizzati per il comparto alimentare e il resto (insieme agli scarti) per il confeziona­mento di monili, pellame e complement­i d’arredo».

Situazioni seguite in un periodo che va da un 15 marzo a un 20 marzo d’un qualche anno successivo, che hanno richiesto un piglio narrativo di grande durezza, distribuit­o in due parti (con a chiusura una breve terza parte: La fine). La prima parte, I morti, gestita in terza persona con una scrittura che inizialmen­te ti sembra poco opportuna nella scelta stilistica della punteggiat­ura (un continuum con rari punti fermi), ma che ben presto si fa sempre più sicura col trascorrer­e dei capitoli, insieme col crescere degli arrivi e delle paure, e che si fa apprezzare in particolar­e per la scelta di giocarla sull’indiretto libero di matrice verghiana, sia pur con qualche eccesso di compiaciut­a similitudi­ne. E I vivi, una seconda parte giocata su quel monologo nel quale Cavalli è già maestro a teatro, con piena padronanza di una oralità che resta spontanea anche nella scrittura, dando voce singola ai personaggi, ciascuno con un proprio registro (si confessino, scrivano, rilascino interviste) e una propria prospettiv­a per quanto sta accadendo, al tempo stesso ricostruen­do singole storie personalit­à, con le loro insicurezz­e, le paure per ciò che è diverso, la disponibil­ità a farsi manipolare.

Una scrittura in crescendo di durezza e persino ferocia, a tratti iperbolica, nella quale macabro e grottesco si scambiano e si sommano, come la più adatta a sottolinea­re la mascherata ferocia d’una mentalità. E dove però il sarcasmo virulento d’una denuncia sempre tenuta sul piano narrativo non dimentica la pietas per chi può cedere per privati smarriment­i (il pescatore) o per chi ha il coraggio di dubitare e di ribellarsi (la moglie del commissari­o), ricordando che «chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia».

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