Corriere della Sera - La Lettura
Le famiglie speculari di Ferrante e Starnone
Nel suo romanzo d’esordio, L’amore molesto (1992), Elena Ferrante dà voce a una protagonista, Delia, che pare soffrire di dromomania, la tendenza nevrotica a spostarsi da un luogo a un altro in modo ossessivo. Per tutta la durata del racconto Delia percorre strade, incrocia piazze e stazioni, attraversa aree centrali e periferiche dello spazio cittadino, denominando ogni volta i luoghi con martellante precisione tassonomica: «piazza Plebiscito», «piazza Garibaldi», «piazza Dante», la «stazione di Chiaia», «via Scarlatti», «via Luca Giordano», «via Merliani», e poi ancora «via Bernini», «via Cimarosa», «via Sanfelice». La città di Napoli affiora dalle pagine nel dettaglio della sua complessa e stratificata topografia.
In Via Gemito (2000), romanzo autobiografico di Domenico Starnone, una strada della città partenopea è esibita fin dal titolo. L’alter ego dell’autore si muove con il passo indolente del flâneur, ma la puntualità con cui riconduce gli spazi attraversati a una toponomastica reale sembra ricalcare da vicino la nevrosi della protagonista de L’amore molesto. Anche i personaggi di Starnone tendono a presentarsi come conoscitori analitici del tessuto urbano, estensori di un catalogo topografico finalizzato a fare di Napoli una città di carta.
Esiste, allora, un rapporto tra la Napoli di Elena Ferrante e quella di Domenico Starnone? Fino a dove si spingono le analogie nel loro racconto della stessa realtà urbana? In che misura questo doppio romanzo di Napoli è sovrapponibile?
Nei fatti, Ferrante e Starnone, solo all’apparenza distanti, hanno continuato a raccontarci negli anni storie familiari molto simili, sullo sfondo di una città amata e odiata in forza delle sue irriducibili contraddizioni. Popolare e piccolissimo-borghese, la Napoli che emerge dalle loro pagine non è tuttavia solo una quinta sulla quale far muovere i personaggi, ma è protagonista essa stessa della storia. Nei libri di Ferrante l’ambiente tende spesso a concentrarsi e a restringersi, fino a coincidere con il microcosmo di un rione cittadino. A dispetto della puntualità con cui sempre vengono nominati gli altri luoghi della città, la sua onomastica resta tuttavia oggetto di un’inusuale reticenza. Per quanto quasi tutte le sue storie trovino ambientazione nello stesso minusco- lo spazio urbano, questo luogo così essenziale per la sua narrativa resta di fatto innominato. Da alcuni elementi indiziari e dai riferimenti spaziali, presenti soprattutto ne L’amica geniale, è comunque possibile risalire all’identità del rione. Il «terrapieno» della ferrovia con le carrozze dei treni in disuso, lo «stradone», l’area degli «stagni», un «tunnel a tre bocche» che si apre in direzione del mare, e soprattutto la «chiesa della Sacra Famiglia», un edificio storico di Napoli, consentono di riconoscere con sicurezza il rione Luzzatti, un’area popolare nella zona est della città.
Se la Napoli di Elena Ferrante ha un profilo unico ed è raccontata a partire dallo spazio embrionale del rione, quella di Domenico Starnone ha un volto doppio, si racconta attraverso i suoi quartieri storici, ed è contemporaneamente una «città del padre» e una «città della madre». Soprattutto in Via Gemito, il romanzo in cui ricostruisce la storia del difficile rapporto coniugale fra i suoi genitori, Starnone è indotto a separare una Napoli «maschile», legata alla memoria del padre, da una città «femminile», legata alla memoria materna.
La vicenda di Federì, uomo irascibile, pittore costretto alla professione di ferroviere per mantenere la famiglia, e della moglie Rusinè, vittima designata della sua inguaribile gelosia, viene raccontata dalla voce di parte del figlio, severo testimone d’accusa delle incontenibili furie paterne. In una storia in cui fanno gorgo verità e fraintendimenti, rimozioni e sensi di colpa, anche lo spazio fisico della città subisce una frattura, alimentando nella memoria di chi racconta una divisione netta fra i luoghi dominati dalla presenza risentita del padre e gli spazi abitati dalla silhouette gentile e quasi disincarnata della madre. Nell’ottica del figlio, la storia di Federì e i luoghi della sua nascita, della giovinezza, della vita adulta, marcano il perimetro di un ambiente cittadino «maschio», dentro cui l’esuberanza e gli eccessi del genitore trovano espressione nella sua forma più plateale. Uno spazio narrativo che coincide con il quartiere Mercato, tra la stazione centrale e l’area portuale, e il quar-
tiere Vomero, sulla collina che segna a occidente il profilo di Napoli.
Se si prendono come riferimento i quadranti della città si può notare come Starnone faccia coincidere il quadrante occidentale, dove è collocato il Vomero, e una più ristretta zona centrale, dove si trova il quartiere Mercato, con la «città del padre». La «città della madre», ovviamente, è uno spazio geograficamente opposto, simmetrico e pertanto confinante, e tuttavia separato dallo spazio paterno. Occupa una piccola porzione nel quadrante orientale e accoglie, nel perimetro ristretto di uno stesso rione, gli amatissimi parenti di Rusinè. Sono, queste ultime, figure affettuose, piene di attenzioni e gentilezze, lontane dal temperamento collerico di Federì che non perde occasione per dirne male e sminuirli. «Io stavo a sentire in silenzio — sono stato a sentire così, con motivazioni diverse, fino a quando è morto — e non osavo confessargli che invece li amavo quei parenti, tutti quanti, ed escludevo che avessero commesso anche una sola delle colpe che lui gli attribuiva».
A differenza di quello che accade con i luoghi paterni, sempre dettagliatamente descritti e denominati, lo spazio materno resta imprecisato, una piccola area urbana dalla toponomastica misteriosa. Come nei libri di Elena Ferrante, anche in questo caso chi racconta appare insolitamente reticente. Sparsi riferimenti testuali, tuttavia, ci vengono in soccorso: in più occasioni l’io narrante informa il lettore che per raggiungere il rione dove vivono i parenti di Rusinè percorre, da «corso Arnaldo Lucci», «via Taddeo da Sessa». Pedinando il personaggio su una mappa di Napoli è sorprendente scoprire che il suo percorso conduce esattamente all’ingresso del rione Luzzatti. C’è dunque un luogo preciso nella geografia della città in cui il microcosmo delle storie della Ferrante e la «città femminile» di Starnone finiscono per sovrapporsi fino a coincidere.
L’autobiografia abrasa
Ne L’amica geniale il rione Luzzatti, mai nominato eppure riconoscibilissimo, è il cuore spaziale di un avvincente racconto-fiume, il punto a partire dal quale tutte le storie si irradiano e a cui fanno ritorno. Nel lungo arco di tempo che va dagli anni Cinquanta del Novecento al tornante del Millennio, il romanzo diventa anche la storia delle complesse trasformazioni urbanistiche e sociali che investono la città. Il racconto si apre su un minuscolo agglomerato di «palazzine bianche a quattro piani», edifici perimetrali raccolti attorno a una corte sulla quale si affacciano gli ingressi degli stabili e i bassi destinati alle attività commerciali. Lo spaccato sociale è marcatamente popolare con gli artigiani, gli operai, i piccoli impiegati pubblici e soprattutto i bottegai.
In Via Gemito, la «città della madre» di Starnone coincide con il rione popolare dei parenti materni, tutti commercianti, con gli appartamenti concentrati nella stessa ristretta area urbana e i negozi sotto l’abitazione, nel basso ai piedi dell’edificio. Queste, nelle prime pagine del romanzo, le notizie che dall’io narrante apprendiamo su di loro: «Zia Assunta, così simile a mia nonna, che ancora negli anni Sessanta vendeva frutta e verdura insieme al marito, zio Matteo; zia Maria, claudicante, la testa appena reclinata, che faceva il caffè nel suo bar e vendeva le paste a cui lavorava zio Espedito nel laboratorio; zia Carmela, dall’apparenza sempre allegra, che ci farciva il pane con prosciutto o mortadella o salame, e parlava tanto quanto il marito, zio Attilio, taceva». Assunta, Maria, Carmela, sono le sorelle della madre di Rusinè, hanno tutte sposato uomini dediti al commercio e con loro gestiscono chi un negozio di frutta, chi un bar-pasticceria, chi una salumeria. Scorriamo l’elenco dei parenti bottegai del protagonista di Via Gemito e ci pare di leggere l’«Indice dei personaggi» che figura ad apertura de L’amica geniale: «La famiglia Scanno (la famiglia del fruttivendolo)», «la famiglia Solara (la famiglia del proprietario dell’omonimo bar-pasticceria)», «la famiglia di Don Achille», i gestori della redditizia salumeria rionale.
Così nella tetralogia viene dato conto, attraverso la voce narrante della protagonista, delle febbrili trasformazioni che interessano le attività commerciali del rione all’inizio degli anni Cinquanta: «Il bar Solara si ampliò, diventò una fornitissima pasticceria — il cui pasticciere provetto era il padre di Gigliola Spagnuolo — che la domenica si affollava di uomini giovani e anziani che compravano paste per le loro famiglie. I due figli di Silvio Solara, Marcello che era intorno ai vent’anni e Michele appena più piccolo, si comprarono un Millecento bianco e blu e la domenica si pavoneggiavano andando avanti e indietro per le vie del rione. L’ex falegnameria Peluso, che una volta nelle mani di Don Achille era diventata una salumeria, si riempì di cose buone che occuparono anche un po’ di marciapiede. A passarci davanti si sentiva un odore di spezie, d’olive, di salami, di pane fresco, di cicoli e sugna che metteva fame. […] Assunta, che vendeva frutta e verdura per le strade insieme a suo marito Nicola, s’era dovuta ritirare per un brutto mal di schiena, e dopo qualche mese una polmonite aveva quasi ammazzato il suo consorte. Tuttavia quei due infortuni s’erano rivelati un bene. Adesso, ad andare in giro ogni mattina per le vie del rione con la carretta tirata dal cavallo, d’estate e d’inverno, con la pioggia e col sole, era il figlio grande, Enzo, che non aveva quasi più niente del bambino che ci tirava i sassi, era diventato un ragazzo tarchiato, l’aria forte e sana, i capelli biondi arruffati, gli occhi azzurri, una voce spessa con cui vantava la sua merce».
Queste righe di Ferrante sono del 2011. Appena un anno prima, in Fare scene, libro ricchissimo di materiali autobiografici, Starnone ricordava le trasformazioni economiche che avevano investito la sua famiglia nel dopoguerra: «Mia madre [ proveniva] da una famiglia senza uomini, tutte madri vedove e zie nubili che lavoravano a domicilio facendo i guanti. […] Le parenti di lei a un certo punto s’erano maritate con giovani che nel dopoguerra avevano tentato la via del commercio aprendo chi un negozio di frutta, chi una pasticceria, chi una salumeria. […] Nostro padre soprattutto era avvelenato da chi i soldi, sotto i suoi occhi, li stava facendo col commercio e marcava la propria ascesa economica comprando case e auto di lusso e vestiti e cappelli e orologi e gioielli, vale a dire i parenti di mia madre. […] i commercianti parenti di sua moglie. Loro diventavano sempre più ricchi e lui no. […] La cosa che lo rattristò di più furono i veloci cambi d’automobile, lui che non aveva ancora preso nemmeno la patente. I parenti arrivavano con la Seicento sotto casa nostra e lui andava in strada a vedere. Passava un anno e gli stessi parenti si ripresentavano con un Millecento, un’automobile che sembrava come quelle che si vedono nei film americani, e lui correva di sotto e cercava difetti. […] Ma la volta che si turbò di più, tanto che restò muto a guardare con mezzo sorriso stanco, fu quando un nostro cugino di appena diciotto anni, figlio di un parente commerciante e già commerciante anche lui, venne a trovarci con una macchina nuova potentissima che si chiamava Giulietta, e si vantò con mio padre di quanti chilometri faceva all’ora e volle portarci tutti a provare l’ebbrezza della velocità».
Anche in questa pagina di Starnone è possibile ritrovare più di un punto di contatto con la storia raccontata da Elena Ferrante ne L’amica geniale. L’ascesa economica di Lila, ad esempio, è segnata, dopo il matrimonio con Stefano, proprietario della salumeria di famiglia, dal trasferimento in una casa nuova nella zona di recente espansione del rione e, come in Starnone, dall’acquisto di «auto di lusso e vestiti e cappelli e orologi e gioielli». Sono tutti segni di una nuova ricchezza che marcano la distanza sociale che per la prima volta separa Lila da Elena, alimentando quel meccanismo di serrata competizione che caratterizza l’amicizia al femminile tra le due protagoniste. E poi «i veloci cambi d’automobile»: il «Millecento» e la «Giulietta» dei giovani parenti commercianti di Starnone, saranno ancora, nelle pagine de L’amica geniale, il «Millecento» dei fratelli Solara, i giovani e prepotenti gestori dell’omonimo bar- pasticceria, e la «Giulietta» con la quale tornano «ad atteggiarsi a padroni del rione», quando il Millecento «era stato ridotto a pezzi». Anche in Elena Ferrante i cambi d’automobile marcano le svolte del destino economico delle famiglie, i loro modelli, descritti e ripetutamente nominati, sono centrali in molti episodi della saga.
Ma è soprattutto nella figura di Nino, il protagonista maschile della tetralogia, che è dato rintracciare le prove più evidenti di una sorta di autobiografia trasposta e dissimulata. Nell’«Indice dei personaggi» la sua è presentata come «la famiglia Sarratore (la famiglia del ferroviere-poeta)», ed è composta dal padre Donato, controllore, appassionato di poesia, da Lidia, moglie di Donato, dallo stesso Nino, figlio primogenito, e dai figli minori Marisa, Pino, Clelia e Ciro. Si tenga conto, per cominciare, che il nome completo del personaggio, «Nino Sarratore», è anagramma imperfetto di «Starnone». Nell’eventualità in cui ci si trovasse di fronte a una raffinata strategia di occultamento, si tratterebbe di un primo significativo indizio rivelatore, una sorta di firma cifrata, posta segretamente in calce all’opera da parte del suo vero autore. Si consideri, inoltre, che molte esperienze vissute dal personaggio, sebbene romanzescamente trasfigurate, rimandano alla biografia di Starnone, o meglio a quanto il lettore comune conosce della vita reale dello scrittore dai testi più scopertamente autobiografici. Sorprendente risulta ancora la coincidenza numerica che accomuna i cinque figli della coppia Donato-Lidia ai cinque figli di Federì e Rusinè: Mimì, Geppe, Toni, Walter, Filomena. Non si trascuri, infine, che le dinamiche relazionali tra i componenti della famiglia Sarratore tendono spesso a essere ricalcate su quelle già tematizzate nei romanzi di Domenico Starnone. Ad esempio, il rapporto conflittuale fra Nino e il padre Donato, ferroviere e poeta, ripropone il conflitto autobiografico di Via Gemito fra l’io narrante e il padre Federì, ferroviere e pittore.
Sono prove sufficienti a dimostrare che l’autobiografia di Starnone e Ferrante coincidono? Che il serbatoio del loro immaginario narrativo è comune? Materiali di un unico vissuto sembrano affiorare da testi differenti soprattutto quando, rievocati attraverso l’operazione medianica della scrittura, i morti di Starnone, i cari defunti di parte materna, ci vengono incontro dalle pagine di Elena Ferrante. Fantasmi, spiriti resuscitati, come nei drammi barocchi di Shakespeare, si impongono con forza al centro della scena. Tuttavia, a differenza di quanto accade nel teatro elisabettiano, ne L’amica ge
niale essi hanno perduto ogni sembianza di spettri e amano e odiano con la dolcezza e la ferocia dei vivi.
Se si volesse continuare ad assecondare l’ipotesi che i due autori sono in realtà lo stesso scrittore, si potrebbe immaginare l’opera della Ferrante come lo specchio rovesciato dell’opera di Starnone. La biografia di quest’ultimo agirebbe, di fatto, come il reagente chimico in grado di rivelare l’autobiografia abrasa e cancellata della prima. L’amica geniale, come la pagina di un palinsesto — raschiata perché possa essere riscritta — rivelerebbe a un’indagine minuziosa che i dettagli dell’autobiografia occultata rimandano alle cronache familiari di Domenico Starnone.
Dal mito familiare di Elsa Morante all’anti-mito di Elena Ferrante
Esiste un modello alla base di questa raffinatissima operazione letteraria? Porsi questa domanda equivale a sciogliere il nodo che fin dal romanzo d’esordio lega, in un fitto gioco di rimandi intertestuali, Elena Ferrante a
Dettagli Ferrante e Starnone citano anche le stesse automobili — il «Millecento», la «Giulietta» — per segnalare il cambiamento di livello economico dei personaggi L’operazione tentata ne «L’amica geniale» potrebbe essere simile a quella già sperimentata in «Menzogna e sortilegio»: trasfigurare la propria biografia familiare. Elsa Morante però la innalza a mito, Ferrante (cioè Starnone) la abbassa ad anti-mito
Elsa Morante. Nel 1992, nello stesso anno in cui fu pubblicato, L’amore molesto vinse il premio letterario intitolato alla scrittrice de L’isola di Arturo. Fu in quell’occasione che Elena Ferrante, pur accettando il riconoscimento, rifiutò di ritirarlo di persona, alimentando i sospetti che già cominciavano a circolare sulla sua misteriosa identità.
Per una di quelle coincidenze in cui possono riconoscersi i segni di un destino, l’attribuzione del premio suggeriva molto più di quanto il facile gioco delle allitterazioni, legato ai nomi, non lasciasse intuire. Certo la scelta dello pseudonimo costituisce un sicuro omaggio a Elsa Morante, ma quali potrebbero essere state le ragioni profonde che hanno portato all’adozione di un
nom de plume che la richiamasse in maniera tanto smaccata e trasparente? La soluzione del mistero, come sempre, va cercata in letteratura. Nel 1948 la Morante pubblica Menzogna e sortilegio, un lungo racconto d’appendice in cui dà vita al personaggio autobiografico di Elisa, la «sepolta viva» dei primi capitoli. Serrata in casa, in un clima sospeso di incantamenti, Elisa trascorre la sua giornata in comunicazione costante con un «mondo larvale» di morti, spettri nei quali resuscitano le fattezze dei propri parenti defunti. L’aspetto caratterizzante di questa rievocazione consiste nel fatto che i parenti protagonisti delle sue storie sono trasfigurati in forza di un mito edificante: «Si trattava sempre di re, condottieri, profeti, e gente, insomma, d’altissimo rango»; «mia madre fu una santa, mio padre un granduca in incognito, mio cugino Edoardo un ras dei deserti d’oltretomba, e mia zia Concetta una profetessa regina». Per spiegare il proprio rapporto con la materia autobiografica di Menzogna e sortilegio, la stessa Morante era solita paragonarsi a «un archeologo che parte verso una città leggendaria» e che alla fine di un lungo viaggio scopre la «necropoli del proprio mito familiare».
Nelle pagine de L’amica geniale non c’è traccia di re, condottieri, profeti, granduchi, ras dei deserti e gente d’altissimo rango, nel rione popolare si distinguono semmai scarpari, uscieri, ferrovieri, fruttivendoli, salumieri, pasticcieri e ancora borsaneristi, camorristi, usurai, commercianti disonesti e guappi violenti. Che rapporto hanno questi personaggi con gli amatissimi parenti materni di Starnone, a cui in parte paiono ispirati? A quale livello di reinvenzione si è imposta la trasfigurazione che avrebbe mutato i familiari reali dello scrittore di Via Gemito nei protagonisti del racconto di Ferrante?
L’operazione letteraria tentata ne L’amica geniale è paragonabile a quella realizzata da Morante nelle pagine di Menzogna e sortilegio, ma invertita di segno: il mito familiare di Elisa è stato apertamente rovesciato in anti-mito. Se Elsa Morante reinventa l’autobiografia a un grado più alto rispetto a quello dell’esistenza reale, dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante, Starnone sembrerebbe aver riscritto la propria abbassandola di livello. Del resto, dell’intenzione di perlustrare i «fondali bassi» della narrazione non ha mai fatto mistero di chi si nasconde sotto la maschera di Ferrante: «Con gli anni mi vergogno sempre meno di come mi appassionavo alle storie dei giornaletti femminili che circolavano per casa; robaccia di amori e tradimenti, che però mi ha causato emozioni indelebili, un desiderio di trame non necessariamente sensate, il desiderio di passioni forti e un po’ volgari. Anche questo scantinato dello scrivere, fondo pieno di piacere che per anni ho represso in nome della Letteratura, mi pare che vada messo al lavoro, perché non solo sui classici ma anche lì è cresciuta la smania di racconto, e allora ha senso gettare via la chiave?». Dallo «scantinato dello scrivere», dunque, trarrebbe alimento il lungo romanzo-fiume de L’amica ge
niale, un feuilleton scritto tenendo conto di tutti gli espedienti, i trucchi, le malie e gli incantesimi della narrativa d’appendice. È dentro il perimetro di una precisa scelta di genere che trovano spazio, di fatto, le soluzioni narrative adottate, a partire da quelle che deformano le fisionomie dei personaggi, imponendo loro una specifica caratterizzazione. Gli affettuosi, gentili, parenti materni possono subire il trattamento che li trasfigura in borsaneristi, camorristi e usurai perché la verità della pagina scritta non dipende da un’adesione cronachistica alla realtà, ma dalla coerenza narrativa con cui l’esperienza viene reinventata.
Come l’archeologo di Elsa Morante, partito alla ricerca di una città leggendaria, Starnone sembrerebbe essersi incamminato sulle tracce della propria autobiografia, ripercorrendola passo passo, prima cancellandola per potersi cancellare, poi reinventandola per potersi reinventare. Ad attenderlo, alla fine del viaggio, c’è una necropoli che ospita solo spettri e una sacerdotessa in grado di evocarli. Nelle pagine de L’amica geniale il lettore può assistere, visitandola, allo spettacolo di spiriti che mettono in scena la loro storia passata, ognuno riadattandola, abbassandola di tono, qualcuno rovesciandola, scambiandosi la parte. Gli attori sono così bravi che presto ci si lascia irretire, dimenticandosi che i vivi sono solo ombre e che a occupare realmente la scena c’è una folla sterminata, una vasta babilonia di fantasmi.