Corriere della Sera - La Lettura
Ucraina Una guerra chiamata pace
Nella storia dell’Ucraina ci sono stati momenti in cui la maggiore portavoce della sua identità nazionale fu paradossalmente la Russia. Accadde a Yalta, nel febbraio 1945, quando Churchill, Roosevelt e Stalin si incontrarono per disegnare la carta geopolitica del dopoguerra. Il presidente americano propose la creazione di una nuova Società delle Nazioni, che si sarebbe chiamata Organizzazione delle Nazioni Unite. Stalin accettò, ma chiese che un seggio fosse riservato anche a due repubbliche federate dell’Unione Sovietica: Ucraina e Bielorussia. Quando Roosevelt obiettò che Mosca, in questo modo, avrebbe avuto tre voti, Stalin sostenne che il Regno Unito poteva contare sul voto dei Paesi del Commonwealth, fra cui Australia, Canada e Nuova Zelanda. Il confronto tra Commonwealth e Urss era discutibile, ma Roosevelt voleva passare alla storia come padre delle Nazioni Unite e finì per cedere alla richiesta di Stalin.
Da allora l’Ucraina ha sempre avuto un seggio al Palazzo di Vetro ed è elencata nei ma- nuali di diritto internazionale tra i fondatori dell’Onu. I padroni di casa erano al Cremlino, ma la dirigenza sovietica ebbe sempre per l’Ucraina un occhio di riguardo. Sapeva che le storie dei due Paesi erano intrecciate e, benché comunista, non poteva ignorare che la patria religiosa dei russi era a Kiev, dove il gran principe Vladimir aveva convertito i suoi sudditi al cristianesimo nel 988. Stalin non fu tenero con il clero, ma nel 1946 conquistò la riconoscenza dell’ortodossia ucraina regalando alla sua Chiesa i beni che appartenevano agli uniati (i cattolici romani di rito greco).
Separare i russi dagli ucraini in Urss, sulla base delle rispettive aspettative umane e professionali, era comunque difficile, se non impossibile. Due segretari generali del partito — Nikita Krusciov e Leonid Brezhnev — erano ucraini. Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dal 1957 al 1985, e Konstantin Cernenko, segretario del partito dal 1984 al 1985, erano nati in Russia, ma da famiglie di origine ucraina o bielorussa. Vi era un nazionalismo ucraino che si manifestava durante le grandi crisi dello Stato centrale: contro i bolscevichi nel 1920 e contro l’Urss di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. Ma quei nazionalisti si erano spesso screditati affidando le loro rivendicazioni alla protezione di uno straniero, tedesco o polacco. Vi fu una resistenza antitedesca quando la Germania occupò l’Ucraina dopo l’operazione Barbarossa del giugno 1941; ma vi furono anche formazioni che combatterono con la Wehrmacht contro l’Armata Rossa.
Per tagliare le ali a questo nazionalismo, Mosca fu spesso pronta a fare concessioni. Nel 1922 lasciò all’Ucraina sovietica le terre abitate da coloni russi chiamate, sin dal XVIII secolo, Novarossija. Nel 1954 Krusciov volle celebrare il terzo centenario del patto di Perejeslav con cui i cosacchi (popolazione che si era installata fra il Don e il Dnepr nel XV secolo) erano usciti dall’orbita polacca per giurare fedeltà alla Russia. Lo fece regalando all’Ucraina una terra strappata ai tatari, la Crimea, che il principe Potiomkin aveva donato a Caterina II nel 1783. La Crimea era divenuta da allora il maggiore presidio russo sul Mar Nero e il suo porto (Sebastopoli) la principale base della flotta con cui Pietro il Grande aveva fatto del suo Pa-
ese una grande potenza marittima. Nella storia nazionale russa Sebastopoli era destinata a diventare un simbolo del patriottismo. Dal settembre del 1854 fu assediata per 340 giorni da forze francesi, inglesi e piemontesi; una vicenda che venne descritta in tre racconti da un grande testimone (Lev Tolstoj). Non meno sanguinoso fu il duplice assedio della Seconda guerra mondiale: quello con cui la Wehrmacht conquistò la città nel 1942 e quello con cui i sovietici la ripresero nel 1944.
Il passaggio di un territorio da una repubblica all’altra, nell’ambito dell’Urss, aveva scarsa importanza. Nel 1954, dopo la donazione di Krusciov, cambiarono formalmente i confini, ma la catena di comando, l’ideologia di Stato e le leggi erano le stesse. Il quadro cambiò l’8 dicembre 1991 nella foresta di Belavezha, in Bielorussia. Riuniti in una dacia, i leader delle tre repubbliche slave (Bielorussia, Russia e Ucraina) proposero alle repubbliche dell’Urss che (diversamente da quelle baltiche) non avevano proclamato l’indipendenza la creazione di una Comunità degli Stati indipendenti.
Fu subito chiaro che il nuovo Stato ucraino avrebbe aspirato a uno status diverso da quello delle repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale. Per sciogliere i molti nodi che univano Russia e Ucraina occorreva che entrambe le parti dessero prova di pragmatica saggezza. Ma il clima negoziale dipendeva in buona parte dal carattere degli interlocutori. Ne avemmo una dimostrazione ogniqualvolta dovettero accordarsi su una città, Sebastopoli, che era al tempo stesso un simbolo nazionale e una base militare. Vi fu una difficile spartizione della flotta. Vi furono contratti d’affitto che i russi dovettero pagare in dollari. E vi furono scadenze che obbligavano le parti a rinnovare e aggiornare gli accordi. Molto dipendeva dalle inclinazioni politiche del presidente ucraino. Se era interessato ad avere con la Russia un rapporto di buon vicinato, come Leonid Kuchma e più recentemente Viktor Yanukovich, gli accordi venivano raggiunti abbastanza rapidamente. Se era maggiormente interessato a coltivare l’amicizia degli Stati Uniti e ad agitare il drappo della Nato, come Viktor Yushchenko e Petro Poroshenko, ogni negoziato diventava un’occasione per screzi e bisticci.
Fu Stalin a esigere che Kiev avesse un seggio all’Onu sin dal 1945. E fu Krusciov che nel 1954 le «regalò» la Crimea, fino allora territorio della Russia. Ma nel 1991 la repubblica è divenuta indipendente, staccandosi dall’Urss ormai agonizzante. Da allora è stata divisa tra chi guarda a Occidente e chi vuole mantenere un legame privilegiato con Mosca. Ne è nato un conflitto cruento, tuttora irrisolto, che sta producendo effetti anche in campo religioso
La vittoria di Yanukovich nelle presidenziali del 2004 provocò diffuse proteste di dimostranti che denunciavano brogli, chiedevano nuove elezioni e sostenevano Yushchenko, politicamente molto più gradito alle democrazie occidentali. Il voto venne ripetuto e cominciò così un lungo «periodo dei torbidi», durante il quale la posta in gioco era la collocazione politica dell’Ucraina in un contesto internazionale sempre più simile a quello della guerra fredda. Il duello divenne drammatico quando il Paese dovette scegliere fra due possibili associazioni economiche: quella che il governo di Yushchenko aveva cominciato a negoziare con l’Unione Europea e quella offerta dalla Russia, che Yanukovich, rieletto alla presidenza nel 2010, avrebbe certo sottoscritto. Scoppiarono nel 2014 nuovi disordini, brutalmente repressi dalla polizia in piazza Maidan. Sembrò che un accordo fosse a portata di mano quando Yanukovich promise ad alcuni ministri degli Esteri occidentali che avrebbe ritirato la polizia e indetto nuove elezioni. Ma con un improvviso dibattito notturno il Parlamento ucraino lo defenestrò e il potere passò a Yushchenko.
Putin capì di avere perduto la partita e reagì nervosamente con l’annessione della Crimea e un evidente sostegno agli indipendentisti russofoni dell’Ucraina orientale. Il resto è storia dei nostri giorni: una storia di occasionali conflitti sul terreno, tregue spesso violate, dispetti politici e sanzioni economiche. Più recentemente anche Dio è diventato materia di litigi. Russi e ucraini sono egualmente ortodossi, ma nella storia dell’ortodossia slava ci sono almeno due fattori di cui occorre tenere conto. In primo luogo Mosca si dichiara erede di Bisanzio e «terza Roma»: uno status che permette al suo patriarca di considerarsi non meno importante del patriarca di Costantinopoli. In secondo luogo il clero ortodosso è molto nazionale, legato alla sorte del suo popolo e sempre desideroso di un’autonomia che viene definita, in linguaggio ecclesiastico, autocefalia. All’incidente dello scorso novembre nel mare di Azov l’Ucraina ha dato quindi anche una risposta religiosa, proclamando l’indipendenza dal patriarcato moscovita della propria Chiesa nazionale, che ha eletto un suo primate: dopo essere stati lungamente separati dalla loro storia, russi e ucraini saranno separati anche da una stessa fede.