Corriere della Sera - La Lettura
Il fronte caldo
Avdiivka, Ucraina orientale. Quando Manu Riche, il geniale regista belga di Snake Dan
ce e Problemski Hotel, mi ha chiesto di accompagnarlo nel Donbass per alcuni sopralluoghi, non ci ho pensato due volte a fare la valigia.
Dopo cinque anni di morte, paura e miseria, nessuna prospettiva minimamente ottimista, minimamente ragionevole sembra profilarsi all’orizzonte. Il tragico garbuglio di violenza e propaganda che i tg definiscono a volte «crisi» e a volte «guerra» ucraina si sta trasformando in uno stato di emergenza permanente, in una partita di mosse e contromosse giocata sull’orlo di un baratro insondabile. Al di là delle singole contingenze e delle variabili locali, un ritmo di fragili tregue e nuove esplosioni di follia distruttiva, una volta stabilizzato, sembra la forma ideale per tutti gli autoritarismi paranoici, per tutte le tirannidi mediatiche del nuovo millennio. Assicurando facili e durature carriere ai peggiori politici che si possano immaginare, con il loro contorno di brutti ceffi, parassiti, ideologi dementi, affaristi che contano i soldi dietro le quinte.
Quello che succede in Ucraina, insomma, andrebbe considerato, con la dovuta angoscia, come un modello di futuro per nulla improbabile. Parlando con la gente, durante il lungo viaggio verso est da Dnipro, abbiamo registrato un diffuso stato d’animo i cui ingredienti essenziali sono l’amarezza, l’ironia, il disincanto. Come gli italiani di Stendhal, gli ucraini sembrano considerare i potenti come una razza a parte di uomini cattivi, fortunati, pericolosamente suscettibili. E gli oligarchi, meno famosi dei colleghi russi? «I più importanti sono pochi», assicura un grossista di scarpe incontrato al bar di una stazione di servizio, che parla un ottimo italiano: «Più di cinque, meno di dieci. Possiedono tutto. I politici, a Kiev, sono le loro marionette. Ce ne sono alla vecchia maniera, ricordano un poco il tipod’ uom oche er aB režnev: vodka, donne, guai in famiglia. Altri si danno unto- no, proteggono le arti, finanziano musei e teatri. Non c’è nulla di meglio dell’arte contemporanea per... come dite in Italia?, rifarsi una faccia».
Viaggiando in macchina, si ha la sensazione di restare fermi o di girare in tondo, tanto il paesaggio rimane identico, una distesa perfettamente piatta fino a un orizzonte lontanissimo tracciato con il righello, la monotonia esaltata dalla neve. In prossimità degli incroci, si attraversano minuscoli villaggi di contadini, una manciata di case dal tetto aguzzo sparse in queste immense solitudini, che evocano immediatamente l’ idea di un’esistenza povera se non misera, ostinata, faticosa.
Se vuoi guardare veramente il cielo, ha scritto da qualche parte Cechov, devi attraversare la steppa: e solo l’esperienza concreta rivela pienamente la verità dell’ affermazione. Quando arrivala notte, la luna incombe enorme e fa pensare a quel bellissimo film di Lars von Trier sulla fine del mondo. Ma con il buio, non diversamente dai tempi di Cechov, conviene fermarsi da qualche parte. Un problema di sicurezza, dicono tutti. Ma non solo. La condizione pessima delle strade è uno dei grandi problemi dell’Ucraina, e miete ogni anno molte più vittime della guerra. È per assicurarsi il controllo di queste strade malmesse, piene di buche e di autentiche voragini, che in questi anni si sono combattute molte battaglie tra separatisti filo-russi ed esercito ucraino nel Donbass.
All’inizio del 2017, della battaglia di Avdiivka e della conseguente emergenza umanitaria si sono occupati i giornali di tutto il mondo. A pochi chilometri da qui c’è Donetsk e la lunghissima linea del fronte taglia a metà le distese dei campi
di mais e girasoli. Ma questa, fin dai tempi sovietici, è una città industriale dominata dall’Akhz, l’immenso impianto di produzione di coke, usato come combustibile nelle acciaierie. Quella dei minatori e degli operai dell’industria pesante del Donbass è stata una cultura particolare, forgiata dalla propaganda sovietica e trasmessa di padre in figlio per decenni, anche dopo la fine del comunismo. Era un collante sociale i cui ingredienti principali consistevano nella solidarietà di classe, nel coraggio di fronte alle avversità, nella fede nel futuro, nel duplice culto della famiglia e del Partito. Nulla potrà mai rimettere insieme i frantumi di questa mitologia, sostituita da una perpetua incertezza esaltata dalle difficoltà economiche, dalle delusioni politiche, e infine dalla guerra.
Alla vita in prima linea, la gente di Avdiivka sembra ormai abituata. Paradossalmente, il confine è molto permeabile. Il proprietario di una pizzeria in centro spiega che buona parte dell’economia, nelle zone controllate dai separatisti, dipende dalle pensioni, che però possono essere riscosse solo in territorio ucraino. «I giovani combattono, i vecchi vanno e vengono». In città non ci sono molti locali, la vita notturna è pratica- mente inesistente. Si compra una bottiglia di vodka e si beve con gli amici a casa, in cucina.
Un’altra forma di socialità maschile consiste — nei mesi più caldi dell’anno — nel riunirsi in un garage. Ai bordi dei larghi viali di stile sovietico, si susseguono file di cupi condomini scarsamente rallegrati da un’insegna commerciale. Su qualche muro ogni tanto appare, chissà perché, una minacciosa parola italiana tracciata con lo spray: VENDETTA.
L’inquinamento, in queste città industriali ucraine sorte dal nulla in epoca sovietica, è ben oltre ogni normale limite di guardia. Né, viene da pensare, le questioni discusse al recente vertice polacco di Katowice sul riscaldamento climatico, sembrano percepite qui come una priorità. Di carbone e petrolio racconterà il nuovo film di Manu Riche, dal titolo che è una missione e un’ammissione: Charbon.
Superati alcuni check-point militari, raggiungiamo un quartiere residenziale al limite estremo dell’abitato. Sembra totalmente deserto. In effetti, avvicinandoci, ci rendiamo conto che tutti gli edifici mostrano gli squarci dei bombardamenti. I cortili sono occupati da carri armati e da varie attrezzature belliche. Qualche raro passante — la busta della spesa tra le mani e l’andatura frettolosa — ci osserva con sospetto. All’ombra di questi palazzi diroccati e silenziosi, guardando la pianura deserta in direzione di Donetsk, tutto il paesaggio sembra attendere tranquillo la traversata dell’inverno. Ma le cascine isolate che si intravedono nella distesa appena variata da qualche filare di pioppi sono tutte diroccate e abbandonate, spiega un soldato di passaggio, incuriosito dall’idea che qualcuno sia venuto fin qui per girare un film.
Torniamo indietro verso la periferia orientale di Avdiivka e ci fermiamo davanti a un centro culturale, un grande e anonimo edificio di cemento armato co-
Nella biblioteca di Avdiivka sopravvivono alle bombe una manciata di romanzi italiani e due capolavori russi pieni di parole e modi di dire ucraini. Fuori un boschetto di betulle suggerisce una pace fasulla: il terreno è seminato di mine
me ce ne sono in tutto il mondo, affacciato su una piazzetta dominata da un monumento all’aviazione, di stile decisamente bolscevico-futurista.
A quest’ora non c’è nessuno, a parte una vecchietta lasciata lì a custodire tutto il palazzo, circondata dai suoi gatti che si scaldano intorno a una piccola stufa. Sembra molto contenta della visita inaspettata. Ci mostra un vecchia sala congressi ancora addobbata a stucco colorato con falci e martelli, spighe di grano e stelle rosse. Continua a indicarci il piano di sopra, e in qualche modo comprendiamo che ci sta invitando a visitare la biblioteca. Ne vale la pena, perché ci troviamo all’improvviso in un luogo incantevole, un vero rifugio ben riscaldato e accogliente, l’aria intrisa di un lieve sentore di lavanda e carta ingiallita. Su vecchi mobili di legno lustro sono sistemati centrini e vasetti di fiori secchi. Alle pareti molte icone e vecchie fotografie sulla storia della città: operai e minatori, soldati dell’Armata rossa reduci dalle sanguinose battaglie contro i reggimenti di Hitler lungo il corso del Dnepr.
Arzilla e accogliente come la custode, la bibliotecaria, che parla un discreto inglese, ci confida che quelle due stanzette affollate di libri sono la sua vera casa, «un posto pieno di felicità in un mondo infelice». Mostra una minuscola sezione di letteratura italiana composta da tre libri: l’Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio, un Salgari che non riesco a identificare e Per dieci minuti di Chiara Gamberale. Qualcuno a un certo momento ha rubato Il nome della rosa. Quando le chiediamo quali sono i suoi libri preferiti, non ha esitazioni: tira fuori da uno scaffale le Veglie alla fattoria presso
Dikan’ka di Gogol’, e La guardia bianca di Bulgakov, che legge e rilegge senza mai stancarsene. Due grandi libri della letteratura russa, certamente, ma pieni di parole e modi di dire ucraini. Tanto che Gogol’ aveva sentito la necessità di accludere un piccolo glossario. «Le Ve
glie nascono dalle leggende dei contadini ucraini che Gogol’ ascoltava dalla madre, da bambino. È il libro della nostalgia».
È una legge costante nella mia vita, e credo non solo nella mia: le conversazioni veramente illuminanti sulla letteratura, quelle che non si dimenticano, che fanno venire voglia di leggere subito un libro di cui non ci era mai importato nulla fino a quel momento, si svolgono sempre nei luoghi che meno ci saremmo aspettati. E proprio per questo bisogna coltivare insieme, con la stessa cura, la propria sapienza e la propria ignoranza: così che il non saperne mai abbastanza ci metta in grado di imparare le cose più preziose, di intuire che un libro importante per uno sconosciuto lo potrà essere anche per noi.
Anche questa biblioteca ha subìto i danni dei bombardamenti, nell’inverno del 2017. Ci viene indicato il punto esatto in cui è caduto un razzo, distruggendo alcuni scaffali di libri. I danni maggiori non li ha fatti l’esplosione, ma l’acqua fuoriuscita da un tubo scoppiato.
Ci affacciamo a una finestra per godere dei riflessi del sole sulla neve e sui rami spogli degli alberi, tutti imperlati di minuscoli ghiaccioli come una sterminata, abbagliante decorazione natalizia. Un boschetto di betulle circonda il palazzo del centro culturale, e tutte le apparenze di quest’angolo sperduto di mondo, in questa mattina di sole, suggeriscono l’idea di una quiete domenicale d’altri tempi.
Ma i motivi di questa pace sono tutt’altro che idillici, come si scopre facendo attenzione ai cartelli che delimitano la piazzetta, sormontati da eloquenti teschi. Quelli che circondano l’edificio infatti non sono normali terreni suburbani, ma campi di mine.
Ecco un soggetto degno di meditazione. È vero che la vicinanza tra cose opposte e inconciliabili spesso è frutto del caso, ma è impossibile non attribuire alla biblioteca e al campo minato, in questa forzata prossimità, un valore emblematico, quasi fossero un’allegoria, una sintesi del mondo e del suo precario, azzardato equilibrio di forze contrapposte.
Ormai sulla via del ritorno, ci imbattiamo in un minuscolo supermarket ai bordi della strada deserta. Nient’altro che uno slargo sterrato e qualche metro cubo di cemento sormontato da un’insegna dipinta a colori vivaci. Dietro il bancone, una signora pingue e allegra ci accoglie con un gran sorriso. Stranieri ne ha visti tanti, in questo periodo: giornalisti, troupe televisive, tutta la variegata umanità che ruota intorno a una guerra. Ci tiene a farci assaggiare un vinello che fa assieme ai suoi parenti, e del quale va giustamente fiera. Approfittando del nostro interprete, le chiedo se è ottimista, se pensa che questa situazione migliorerà in qualche modo. Mi chiede, tanto per iniziare, da dove vengo. E poi, capito che sono italiano, mi risponde con gli occhi scintillanti di arguzia: «Lo vuoi sapere perché qui in Ucraina non facciamo un formaggio come il parmigiano? Forse che non saremmo capaci pure noi? Ma c’è una cosa sola che per noi è difficile: il parmigiano ha bisogno di tempo, deve stagionare! E noi ucraini, non siamo mai davvero sicuri di avere tempo. Questa è stata la storia dei nostri nonni e dei nostri genitori e ora è la nostra storia. E così, invece di aspettare il parmigiano, il latte ce lo beviamo al più presto possibile!».