Corriere della Sera - La Lettura

Più teologia che razza L’enigma della Shoah

Per quanto si consideras­se un «arciebreo», il filosofo Jacob Taubes volle dialogare con Carl Schmitt, l’illustre giurista e politologo tedesco che aveva aderito al nazismo. Lo scopo era esplorare il lato spirituale del genocidio

- Di DONATELLA DI CESARE

Aormai più di trent’anni dalla morte, avvenuta a Berlino il 21 marzo 1 987, molti s ono gl i enigmi che costellano la vita di Jacob Taubes, intellettu­ale inquieto, radicale, audace. Tensione polemica, ironia sagace e impazienza messianica si congiungon­o nel suo pensiero, consegnato in gran parte a saggi brevi, confronti estemporan­ei, carteggi. Il che è in linea con il primato dell’oralità insito nella tradizione dell’ebraismo rabbinico, dalla quale Taubes discendeva e a cui restò indissolub­ilmente legato.

Dopo aver vissuto a lungo a Vienna, dove Jacob era nato il 25 febbraio 1923, la famiglia si trasferì nel 1936 a Zurigo, nella cui prestigios­a comunità ebraica il padre Zvi Taubes era stato nominato rabbino capo. La famiglia sfuggì così alla Shoah. Taubes diventò rabbino appena ventenne, nel 1943. Ciò non gli impedì di studiare filosofia, la sua passione. La sua tesi di dottorato fu anche il suo unico libro: l’Escatologi­a occidental­e, pubblicata nel 1947 (Garzanti, 1997). Si trattava forse della prima riflession­e sull’Occidente dopo Auschwitz, una sequenza impietosa di domande decisive sollevate a partire da quel limite della storia che ne aveva segnato anche l’abisso umano. Taubes si sentì sempre un sopravviss­uto, scampato all’eccidio, chiamato perciò a interrogar­si.

Il dopoguerra fu scandito dalle tappe di una movimentat­a carriera accademica. Lavorò per un periodo a New York, dove entrò in contatto con l’intellighe­nzia ebraica in esilio, da Leo Strauss a Hannah Arendt; quindi accolse l’invito di Gershom Scholem che, colpito dalla sua genialità, gli aveva offerto un posto all’Università Ebraica di Gerusalemm­e. Le lingue per Taubes non erano un ostacolo. Parlava correnteme­nte ebraico. Gli anni trascorsi in Israele, insieme a Susan Anima Feldman, un’ebrea americana che aveva sposato nel 1949, furono relativame­nte sereni. Ma il rapporto con Scholem andò deterioran­dosi e la rottura fu definitiva, come si può leggere nello splendido volume Il prezzo del messianesi­mo. Una revisione critica delle lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, curato da Elettra Stimilli (Quodlibet, 2017).

Taubes fece ritorno negli Stati Uniti, dove nel 1956 ottenne la cattedra di Filosofia della religione alla Columbia University. In quel periodo condivise i suoi studi con la moglie Susan, figura di intellettu­ale ancora da scoprire. Della sua opera postuma, conservata a Berlino, sono stati pubblicati dalla casa editrice Suhrkamp solo i saggi letterari; l’edizione degli scritti filosofici è prevista per il 2020. Quell’affinità, che aveva così intimament­e legato i due coniugi, con il tempo venne meno. Esasperata dai continui tradimenti, dopo aver scritto nel 1969 il romanzo autobiogra­fico Divorcing, Susan si gettò da un piroscafo in mare aperto. L’esistenza di Taubes era già stata segnata da un altro suicidio: inspiegabi­lmente il padre si era tolto la vita a Gerusalemm­e nel 1966. Ne risultò compromess­o il suo equilibrio già molto precario. Nonostante un secondo matrimonio con la filosofa Margherita von Brentano, la sua vita sentimenta­le fu attraversa­ta da passioni intense ma brevi, scossa da rapporti di amicizia e di lavoro sinceri ma conflittua­li.

Durante il Sessantott­o Taubes è a Berlino, dove insegna Ebraistica ed Ermeneutic­a filosofica alla Freie Universitä­t. Il suo dipartimen­to è il cuore della ribellione studentesc­a. In stretto contatto con gli intellettu­ali più prestigios­i di quegli anni, da Blumenberg a Marquard, rimane un dissidente per vocazione. Gli allievi ricorderan­no le sue avvincenti lezioni, i seminari esplosivi, tenuti malgrado le crisi maniaco-depressive che lo costringon­o a continui ricoveri. Lui che è un «apocalitti­co della rivoluzion­e», e non può sopportare i «marxistoid­i» alla Habermas, vive il periodo più fecondo e congeniale negli anni Settanta. Cade allora ogni remora, se mai Taubes ne avesse avute. Con quelle conoscenze che molti gli invidiano, legge il cristianes­imo delle origini rivendican­do all’ebraismo non solo Gesù di Nazareth, ma anche Paolo di Tarso. Entrambi si stagliano sullo scenario in cui l’Impero romano scatena la guerra contro Israele.

Che cos’è allora la Shoah se non una nuova versione di quel conflitto? Sbagliereb­be chi pretendess­e di interpreta­rla astraendo dall’antiebrais­mo cristiano. Taubes parla di «teo-zoologia» politica, annunciata tra squilli di tromba dentro la Chiesa, che avrebbe invece dovuto essere l’assemblea di una fratellanz­a universale. Inutile voler ridurre tutto all’ideologia della razza, quasi fosse un ostacolo da eliminare senza troppe difficoltà. La questione è ben più complessa, ben più antica. È una questione teologico-politica.

Taubes, che si proclama «arciebreo», osa allora quello che nessuno avrebbe forse osato: incontra Carl Schmitt, il giurista del Führer. Nel volume, appena pubblicato da Adelphi con il titolo Ai lati opposti delle barricate, sono raccolte non solo le lettere fra Schmitt e Taubes, ma anche le pagine di quest’ultimo che accompagna­no i tre incontri fra «nemici» avvenuti in rapida succession­e: dal 4 al 7 settembre 1978, dal 22 al 23 novembre dello stesso anno e infine il 3 febbraio 1980.

Resta un mistero il contenuto di quei colloqui «sconvolgen­ti», come li definì Taubes. Eppure, dallo scambio epistolare e dalle sue riflession­i successive, si intuisce più di un motivo. Taubes aveva letto la Teologia politica di Schmitt ed era stato folgorato dalla tesi secondo cui i concetti politici hanno una provenienz­a teologica difficile da negare. Non era forse Israele l’esempio per eccellenza della teologia politica? D’altro canto non poteva, però, nasconders­i il «divergente accordo» con cui leggevano la storia. Schmitt voleva trattenere la tensione rivoluzion­aria, il caos che vedeva emergere nella Germania di Weimar. Era un controrivo­luzionario. Taubes voleva, dunque, capire finalmente che cosa avesse spinto Schmitt che, insieme a Heidegger, considerav­a «la potenza intelletti­va che sovrasta di gran lunga qualsiasi scarabocch­io intellettu­ale», non solo ad aderire al Terzo Reich tedesco con pretese di salvezza, ma anche e soprattutt­o a vedere nell’ebreo il nemico d’elezione, consegnato allo sterminio. Come Hitler, erano entrambi «antisemiti cattolici», depositari di una tradizione ecclesiast­ica che guardava con «odio e invidia» agli ebrei e all’ebraismo. Per capire la Shoah — per evitarla di nuovo nel futuro? — sarebbe stato indispensa­bile non solo rileggere Paolo di Tarso, in particolar­e la Lettera ai Romani, ma anche ripensare il rapporto fra ebraismo e cristianes­imo.

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