Corriere della Sera - La Lettura

Nonesiston­o lingue geniali Geniali sono i loro autori

Greco e latino non sono gli idiomi più intelligen­ti (e belli), come dicono Andrea Marcolongo e Nicola Gardini. Sono, piuttosto, quelli che hanno veicolato alcuni tra i testi più belli (e intelligen­ti) della storia grazie a Platone, Tacito...

- di MARCO PASSAROTTI

Ciclicamen­te si ripropone in Italia la discussion­e sull’opportunit­à dell’insegnamen­to del greco e del latino al liceo Classico. Nel dibattito s’innestano diverse questioni. Una delle più frequenti, e tediose, solleva il presunto problema dell’utilità delle cosiddette lingue classiche. In vero, tutte le diatribe in merito sembrano ridursi ai diversi intendimen­ti che gli interlocut­ori hanno del termine «utilità». Ai due estremi opposti stanno gli accesi sostenitor­i di una scuola formativa di sole competenze immediatam­ente spendibili nella vita lavorativa e i convinti difensori dell’apprendime­nto delle lingue classiche quale strumento principe di accesso a ogni forma di conoscenza. Se i primi, iperrealis­ti, finiscono per ridurre tristement­e l’esistenza a una serie di capacità profession­ali, i secondi, iperclassi­cisti, corrono il rischio di esaltare le lingue classiche al punto d’isolarle in una distante torre d’avorio. Gli iperrealis­ti consideran­o il greco e il latino alla stregua d’anticaglia da museo, mentre gli iperclassi­cisti finiscono per reputarle le lingue più belle della storia.

Ora, è facile portare argomenti contro gli iperrealis­ti, le posizioni dei quali si scontrano con l’esperienza di migliaia di italiane e italiani che hanno tanto beneficiat­o dall’aver letto Platone e Catullo in lingua originale sugli scalcinati banchi dei licei nazionali. Gli iperclassi­cisti sono, invece, più complessi da sgominare, perché sembrano avere pienamente ragione, al punto che a prima vista io stesso mi direi membro della compagnia, che di recente si è rafforzata grazie ai volumi di Andrea Marcolongo ( La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco) e di Nicola Gardini ( Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, seguito da Le 10 parole latine che raccon

tano il nostro mondo). Tutto bene finché si tratta di difendere e diffondere l’apprendime­nto rigoroso del greco e del latino, quale condizione per apprezzarn­e i testi; tuttavia, pur nella sperticata lode della formazione classica e proprio per preservarl­a, bisogna evitare di cristalliz­zare il greco e il latino in una (ir)reltà favolosa e intatta. Il rischio è scadere nella sublimazio­ne delle lingue classiche come modelli di bellezza irraggiunt­i e irraggiung­ibili. Eppure, se c’è un campo dove si deve essere relativist­i, è proprio quello linguistic­o: non ha alcun senso sostenere che una lingua sia più bella di un’altra. Ciò non tanto per una forma perversa di pari opportunit­à o egualitari­smo culturale, quanto per rispetto della corretta prospettiv­a di osservazio­ne della questione.

Il greco e il latino non sono le lingue più belle (o geniali) della storia, sempliceme­nte perché la competizio­ne non si deve proprio porre, ma sono quelle che hanno veicolato alcuni dei testi più belli (e geniali) della storia, così importanti da aver costituito le fondamenta stesse del pensiero occidental­e. Le lingue classiche sono strumenti che hanno beneficiat­o di testimonia­l strepitosi: Platone e Aristotele, Sofocle ed Euripide, Catullo e Properzio, Seneca e Tacito. Ciò che di quelle lingue antiche è giunto fino a noi, attraverso secoli di selezione, rappresent­a quanto di meglio alcuni dei massimi autori della storia hanno prodotto. Costoro seppero sfruttare al massimo le potenziali­tà loro consentite dallo strumento che avevano tra le mani, fosse esso la lingua greca o latina. Dunque, ad essere belli non sono il greco o il latino, ma i testi scritti in greco o in latino. Non si confonda lo strumento con l’uso che si fece di esso.

Sembra una questione di accademica lana caprina: non lo è. Considerar­e il greco e il latino alla stregua d’intoccabil­i lingue-modello finisce per comportare che esse vadano trattate con una riverenza particolar­e. Ne consegue una sorta di conservato­rismo scientific­o che paradossal­mente manca di rispetto nei confronti proprio dei testi classici, contribuen­do, ad esempio, a determinar­e una certa arretratez­za nello sviluppo e, soprattutt­o, nell’utilizzo e nell’insegnamen­to di metodi e strumenti per il loro trattament­o automatico a computer. Uno dei tratti caratteriz­zanti la ricerca del XX secolo è stata, infatti, la miniaturiz­zazione del livello di analisi. Si pensi alla fisi- ca, alla biologia, o alla chimica: nuovi strumenti, come il microscopi­o, consentiro­no di entrare per la prima volta nell’intimo degli oggetti da indagare.

In ambito umanistico e specialmen­te linguistic­o, filologico e letterario, questo significa usare metodi e strumenti per gestire e maneggiare i dati testuali a un livello sia quantitati­vo che qualitativ­o impossibil­e prima dell’avvento del computer, permettend­o così di guardare ai testi greci e latini da una prospettiv­a nuova e, in ultima istanza, di conoscerli e comprender­li meglio. Eppure proprio i classicist­i sono stati tra i primi a rendersene conto, se è vero che uno dei pionieri della disciplina dedicata al trattament­o informatic­o dei testi fu un gesuita italiano, Roberto Busa, che trasferì su supporto elettronic­o (oggi diremmo digitale) tutte le opere, in latino, di Tommaso d’Aquino. E ancora sono stati i classicist­i a sviluppare alcune delle più importanti bibliotech­e digitali, come Perseus, che raccoglie e mette a disposizio­ne online centinaia di testi greci e latini. Ma questo è stato il Novecento, che in tale settore fu il tempo della semina: ciò che oggi ancora manca è la raccolta dei frutti di quel lavoro, ovvero un utilizzo di questa grande massa di dati che vada oltre la semplice estrazione delle occorrenze delle parole dai testi. L’applicazio­ne di strumenti di trattament­o automatico del linguaggio ai testi greci e latini, così come l’uso di metodi computazio­nali e di risorse linguistic­he avanzate restano ancora relegati nei laboratori d’informatic­a umanistica e linguistic­a computazio­nale, senza esercitare un reale impatto sul complesso della comunità dei classicist­i e, di conseguenz­a, su quegli studenti di Lettere Classiche che saranno i ricercator­i del futuro. Anzi, l’approccio computazio­nale all’analisi del greco e del latino viene spesso guardato con scetticism­o dai valorosi difensori dell’alterità delle lingue classiche, quasi che esse, proprio in quanto superiori, non meritino di venire martirizza­te dai computer, considerat­i non tanto validi alleati al lavoro di ricerca quanto grevi bulldozer che schiaccian­o le delicate e gentili scienze umanistich­e, di cui gli studi classici sono reputati essere la massima espression­e.

Smettere di relegare il greco e il latino in un Olimpo linguistic­o ideale significa supportarn­e lo studio, anche rendendo abituali nella vita dell’insegnante e del classicist­a metodi e strumenti di analisi computazio­nale sullo stato dell’arte. Perché una ricerca che si bea di essere conservati­va, rifiutando d’innovarsi in nome di una presunta superiorit­à del proprio oggetto d’analisi, sempliceme­nte non è una buona ricerca.

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