Corriere della Sera - La Lettura
Strazi, opere e amori di Anne Sexton sicario di sé stessa
Vite di poeti/2 Irene Di Caccamo s’immedesima nella selvaggia, infelice autrice morta suicida nel 1973
Anne Sexton ti colpisce così: «La verità, è che l’unica cosa che mi riesce meglio da sempre è rendere potenti gli uomini col mio corpo». Questo lo tira fuori Irene Di Caccamo in un libro-romanzo-diario ( Dio nella macchina da scrivere) che ci riconsegna, come una bomba emotiva a continua esplosione dalla prima pagina all’ultima, la vita della bellissima e imprendibile poetessa americana, che leggeva in pubblico a piedi scalzi con l’ambulanza pronta per portarla nell’ «hotel sigillato», come chiamava l’ospedale psichiatrico. Sexton, di una bellezza algida, androgina, alta, spalle larghe, gambe lunghe e magre, con il naso vagamente alla Maria Callas. Da giovane con occhi di mare, da donna matura con occhi agganciati alle sue descrizioni e alle sue poesie, che trasformano il cielo in vento e triangoli e dettagli capovolti di una forza incisa appunto sul corpo e poi sulla pagina. Che si dirà «letteratura confessionale».
Irene Di Caccamo, in un libro urgente ed esemplare, traduce in adesione esistenziale quelle scaglie di fulmine, molecole cerebrali che fanno di Sexton un miracolo di equilibrismo sul confine della morte. Dove alla fine giungerà per sua mano e scelta nel 1973, a 45 anni. In un agonismo gelido e sentimentale controllato dall’alcol e dagli antidepressivi, l’aveva battuta sul tempo, a proposito di suicidio, Sylvia Plath, che si era imposta l’obiettivo dei 30 per uscire di scena. Di Caccamo ricorda l’appunto di Sexton: «Sylvia muore. È un martedì». Ma sono fantastiche le emersioni di questo tipo: «Di notte invece rimango sveglia e penso a Dio mentre dorme». Dio nella macchina da scrivere (e cioè tutta la felicità di un destino umano nella poesia che non la salverà) è un libro alla Fitzgerald: lucido e fuori di mente.
Di Caccamo si assume l’onere di ricostruire i pasti sessuali incontrollati di Sexton, le botte che le assestava il marito, le sue lettere di un’attenzione vibrante e caustica, il rapporto con le figlie Margherita, Eva e Rosa, gli indizi (più che indizi) di essere stata violata da bambina dai genitori. Ne viene fuori il ritratto di una donna che usa il suo corpo in un incontrollato bisogno di dare amore come se volesse trovare, sempre sul proprio corpo, il punto esatto dove un tempo fu violata. Ma in tutto questo darsi in trance o offrirsi per puro piacere non decade mai una luminosa verginità. Appunto: il candore della ferita. Ciò fa ricordare Marilyn Monroe. Di Caccamo si spinge oltre. Imita la scrittura di Sexton, se ne assume i bombardamenti emotivi e disegni poetici in una specie di biografia tradotta in un doppiaggio fuori sincrono. È in questi interstizi che si configura un grande dipinto di Hopper dove c’è tutto il mutismo e l’immobilità del mondo. Epperò Sexton, per mano della scrittrice romana, quell’implacabile fissità di Hopper incomincia a invaderla con una velocità folle. Pare cambiare di posto ai clienti del bar e poi prende a invadere quel mondo di altre figure. Le mette e le toglie. E poi arrivano i bambini: i suoi, quelli delle sue amiche, i bambini che siamo stati. La bambina Anne che è stata e che si riflette nei suoi figli.
Una vita, quella di Anne Sexton, di sicura attesa del giorno della morte. Psicoanalisti, ansiolitici, ricoveri, antidepressivi, amanti e amanti e sesso e alcol e divorzio. Ma la poesia e la scrittura furono il punto intoccabile, appunto «vergine» della sua esistenza: «Sono passate solo due settimane e mi sorprendo di come le parole ora si accumu- lino nei fogli, di come diventino la mia carne e mi somiglino. Con disciplina mi sono data il compito di scrivere almeno una pagina al giorno, voglio imparare tutto e intanto mi dimentico del resto, degli altri, delle bambine, delle pillole e anche di mangiare». Ma mai rifugge dall’estrema ribellione, dalla confessione definitiva: «Nella sua casa ora per la prima volta ho la certezza che mi procurerò io la mia morte, vedo anche la fine e i gesti che l’accompagnano. Non ho mai pensato a nulla di così preciso e ho una strana euforia». Quel giorno arriverà puntuale e in orario perfetto come colui che ha nome e cognome e bussa un colpo alla porta. Pare essere un sicario adorato e angelico. Nel cielo c’è una luce inesauribile, «le nuvole scivolano improvvisamente nell’aria fino a raggiungere la mia auto». Anne Sexton afferra un bicchiere di vodka ghiacciata, scende in garage e chiude la porta dietro di sé. Prima di scendere si era svestita del tutto e aveva gettato gli anelli in una grande borsa sul tavolo. In garage sale sull’auto e accende il motore e la radio. La Di Caccamo scrive e non si sa se sia lei a scrivere o Anne: «Mi avvolgo stretta nella sua pelliccia (della madre), è un abbraccio che mi conforta. L’autunno fuori è folgorante e io ho il volto innocente. Lascio il corpo intatto, la poesia viva».
Le parole ultime «L’autunno fuori è folgorante e io ho il volto innocente», e non sai chi delle due abbia scritto queste righe