Corriere della Sera - La Lettura

Il tempo del labirinto scorre senza le persone

Esplorazio­ni Giada Ceri dà conto della sua esperienza di «operatrice della riabilitaz­ione» fra i carcerati con un viaggio nel ventre di una prigione dove tutti, anche il visitatore occasional­e, fanno i conti con «la giusta quantità di dolore»

- Di ALESSANDRA IADICICCO

La Scrittrice si addentra nel dedalo delle carceri in incognito, in punta di piedi. Ne sonda i meandri disposta a perdersi, a inciampare, a fermarsi davanti agli accessi sbarrati e in fondo ai vicoli ciechi, a tornare indietro per ripartire da capo, armata di pazienza, determinaz­ione, intelligen­za, non però della sicumera di chi si aspetta di venirne a capo. È sommessa, silenziosa e — si perdoni l’asprezza del calzante tecnicismo — endofasica, cioè interiore, intima, formulata nella testa per sottili figure di pensiero, la voce narrante che racconta dando forma allo spazio segreto, nascosto, occulto, paradossal­e dell’universo penitenzia­rio.

Che si tratti di un’esperienza personale, che l’autrice si occupi da anni delle problemati­che delle prigioni contempora­nee collaboran­do da «operatrice della riabilitaz­ione» (questa la definizion­e del suo ruolo in burocrates­e) in ambito penitenzia­rio lo si apprende dal risvolto di copertina. Che chi narra, e a un cosmo tanto serrato e complicato come quello in cui si patisce la pena, in cui si soffre, avverte il titolo, La giusta quantità di dolore, riesce a dare una — adeguatame­nte spiazzante — forma narrativa abbia la stoffa dello scrittore, lo si coglie dalla prima pagina.

Giada Ceri, azzecca il tono, indovina la tonalità — sonora ed emotiva — giusta fin dall’incipit, senza bisogno di stare a studiare le variazioni da mettere in chiave: il carattere della sua prosa, il timbro del suo strumento si erano rivelati fin dai suoi esordi, avvenuti una quindicina di anni fa, lei allora era appena trentenne, con il romanzo L’uno. O l’altro (Giano, 2003) seguito da Il fascino delle cause perse (Pequod, 2009). Già allora il suo talento aveva mostrato singolari qualità: una luminosa sagacia, una grande finezza di intuizione, una folgorante ironia.

Con questo spirito colei che ora racconta varca le mura del carcere che, apprende, «deriva dall’aramaico carcar, “sotterrare”». Ne misura la planimetri­a di non-luogo, la concretezz­a tutt’altro che utopica di territorio del disagio reale, gli assurdi spazi celati a chiunque dentro cui si è totalmente visibili a tutti, la geometria da primordial­e Uroboro, il serpente che si morde la coda, la mappa da labirinto kafkiano: «Svoltiamo a un angolo, saliamo due rampe di scale e imbocchiam­o un altro corridoio. In quale parte della prigione siamo finiti? Non pensavo ci saremmo spinti così addentro al cuore di tenebra — e di questo corridoio, di nuovo, non si indovina la fine».

Ne analizza con curiosità e incredulit­à la logica e la grammatica. Decostruis­ce la sintassi dei funzionari e dei coordinato­ri: «Le frasi di quest’uomo che mi guarda dall’alto in basso pur arrivandom­i alla spalla riescono a confonderm­i anche le idee che non ho». Incenerisc­e l’ipocrisia degli eufemismi e degli stereotipi: «Un’istituzion­e che mette al centro la persona mi fa pensare a un poligono di tiro»; il «buongiorno» di una coppia di agenti, pronunciat­o la mattina presto davanti all’ennesima porta blindata fa credere che forse, chissà, potrebbe ancora accadere qualcosa di buono, anche in un luogo «dove nemmeno Pascal scommetter­ebbe sull’esistenza di Dio».

Dei detenuti osserva la nudità delle celle — tavolo sedia lavandino water —, la povertà della dieta, la monotonia delle giornate, la lentezza incomputab­ile delle ore: «Lo scorrere del tempo viaggia senza di me», legge sul muro di uno dei loro loculi. Assiste alla loro messa in scena di sé stessi: a teatro, quello allestito dalla Compagnia della Fortezza di Volterra, un’occasione per reinventar­e Shakespear­e, per identifica­rsi con i protagonis­ti di una tragedia, per prendere coscienza del gioco infame del Fato, delle connivenze oscure tra Colpa e Destino…

Incontra coloro che lottano inesausti per difendere, dei carcerati, il diritto alla riservatez­za, alla salute, all’istruzione, alla rieducazio­ne, personaggi di statura epica, grandiosi antieroi, «affascinan­ti» paladini delle «cause perse»: il Capitano, la Contessa, la Mitragliat­rice — una che mitraglia parole sulla carica della propria motivazion­e e della buona fede nella propria missione, senza permettere all’ombra di un dubbio di turbarla —, il Gatto, la Volpe, una ieratica, serenament­e dimessa Nostra Signora della Bella Morte. Figure splendenti, disposte a scontrarsi con tenacia, oltre che contro le sbarre invalicabi­li dei penitenzia­ri, con «l’ottusità delle istituzion­i», incapaci di pensare sé stesse se non — avverte Luigi Manconi nella polemica prefazione — al prezzo di vergognars­i di sé. Figure coraggiose quanto la muta, tagliente, intelligen­tissima Scrittrice, sapiente abbastanza da riconoscer­e che, in galera, come in letteratur­a, uno straordina­rio potenziale di bellezza, di crescita e di maturità si può riporre nella «giusta quantità di dolore».

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 ??  ?? GIADA CERI La giusta quantità di dolore Prefazione di Luigi Manconi EXÒRMA Pagine 152, e 14,90
GIADA CERI La giusta quantità di dolore Prefazione di Luigi Manconi EXÒRMA Pagine 152, e 14,90

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