Corriere della Sera - La Lettura
L’infanzia non è un Eden Anche il male comincia da lì
I versi di Roberto Carifi rimandano al gruppo di autori che tra la metà degli anni Settanta e gli Ottanta rinnovano la scena della lirica italiana. Lui ci mette temi ricorrenti e una svolta a Oriente
Tra la seconda metà degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, c’è stato un gruppo abbastanza eterogeneo di giovani poeti che scriveva in modo singolare, perfino strano se commisurato alle tendenze prevalenti della poesia italiana nel corso della lunga, interminabile coda del secolo ventesimo. Orfismo, ermetismo, simbolismo, sempre preceduti dal prefisso neo-, furono le etichette, inevitabilmente un po’ vere e un po’ false, con cui vennero subito classificati. In realtà, non si trattava di un movimento vero e proprio, vale a dire dotato della capacità organizzativa e della compattezza di cui le avanguardie del Novecento avevano fatto mostra. E questo anche e soprattutto perché la loro intenzione era radicalmente anti-sistematica. Non il programma, il coordinamento ideologico, la prassi politica, ma la poesia. O meglio: la Poesia.
Chi erano? Milo De Angelis, Roberto Mussapi, Roberto Carifi, Alessandro Ceni, per ricordare solo le figure probabilmente più riconosciute e apprezzate. Va detto che i nomi potrebbero essere moltissimi, dal momento che questa modalità di scrittura si è cristallizzata quasi immediatamente in una maniera, un autentico gergo poetico che si è diffuso via via come a macchia d’olio, tanto più dopo che i veri protagonisti avevano condotto anche molto lontano il baricentro della loro ricerca poetica.
Certo, ogni volta che si riporta un gruppo di poeti a tratti e a ragioni comuni, si fa subito torto alla loro fisionomia particolare. Tuttavia, certi riferimenti letterari e culturali condivisi, una sintonia non di superficie riguardo al lana turatotale dell’ investimento poetico, l’ esistenza stessa di legami personali anche molto forti, assicurano un’indubbia riconoscibilità a questo orientamento espressivo. Si è parlato al riguardo di un misticismo della parola poetica e di una religione della poesia. E, al di là di tutto, è senz’altro vero che proprio l’assolutezza, la non subordinazione del discorso poetico rispetto ad ambiti diversi (storici, politici, sociologici), conferisce di per sé un’identità molto definita a questo genere di poesia. Da qualsiasi parte la si osservi, infatti, si muove in controtendenza rispetto a tutto ciò che stava accadendo fino a quel momento sulla scena italiana (cioè fino al 1976 del primo libro di De Angelis, So
miglianze, che va considerato il punto di partenza di quanto verrà dopo). Dunque distanza, prima di tutto, dalla neoavanguardia, ma distanza anche dalla poesia verso la prosa (per usare la formula molto fortunata di Alfonso Berardinelli), nonché dall’euforia esistenziale e dal dilettantismo di tanta poesia post-sessantottesca. Di qui viene anche la tradizione a cui si sono almeno inizialmente richiamati: non Pasolini, Sanguineti (proprio no), Sereni, Giudici o l’ultimo Montale, quanto invece Campana, Rebora, Onofri, più vicino Luzi e ancor più Bigongiari, riconosciuto come un maestro non solo di poesia ma di pensiero poetico. Senza dimenticare, ovvio, la grande tradizione romantica e il simbolismo europeo.
A partire da queste coordinate fin troppo sommarie, è forse possibile comprendere meglio la vicenda di uno di questi autori, appunto Roberto Carifi, il poeta di Pistoia che ha compiuto settant’anni lo scorso settembre e di cui è uscita una preziosa antologia dell’opera in versi: Amorosa sempre. Poesie (1980-2018),
ben curata da Alba Donati per La nave di
Teseo. Così, una volta ribadito il ruolo davvero fondamentale che ha rivestito per lui Bigongiari, si può subito aggiungere che la sua attenzione particolare è andata al romanticismo tedesco (ad Hölderlin, per esempio; ma ha anche tradotto Georg Trakl, un importante espressionista austriaco), a poeti dotati di una forte componente speculativa come Rilke, Celan e Bonnefoy, o anche a un pensatore dallo spietato estremismo della negazione come Emil Cioran. Non è dunque un caso che fin da subito Carifi abbia coltivato quella difficile, ambigua entità che è il pensiero poetico: chi l’abbia sentito parlare di poesia, sa con quanta competenza e sensibilità sia capace di farlo. Restano solo da aggiungere, tanto più che la loro figura ritorna spesso nei testi di questa antologia, Anna Achmatova e soprattutto Marina Cvetaeva, a cui nella raccolta Oc
cidente (1990) sono dedicate alcune poesie davvero notevoli (a volte, come per una specie di transfert, è lei stessa a parlare in prima persona).
Ed è proprio quest’ultima a dire di una ferita che non può essere medicata. «La vedi, Boris, questa mia gioia spezzata», spiega rivolgendosi a Pasternak. Lo stesso vale certo per Carifi. Dei compagni di strada che si sono richiamati, è probabilmente lui il più duro e sconsolato. Nei suoi versi quella ferita si configura infatti come qualcosa d’originario, che ha a che vedere con l’ingresso nel mondo, con il contatto stesso con la vita. Nella sua prefazione al volume, Giulio Ferroni ha sottolineato allora come questa vicenda poetica si ponga tutta «sotto il segno dell’infanzia». Si tratta però, come subito precisa, di «un’infanzia del “dopo”», vale a dire intesa non come un mito edenico da riconquistare per via d’evocazione poetica, bensì come iniziazione alle divisioni interiori ed esterne, alla sempre più consapevole presenza del male e del dolore, all’attesa della gioia («una gioia che avvicina il cielo», come dice un verso). L’infanzia, quest’infanzia divisa, è qualcosa che non se ne va più. In una piccola e toccante riflessione di poetica che la curatrice ha incluso in Amorosa sempre, Carifi scrive: «Immaginiamo un bambino del dopoguerra che gioca in uno spiazzo sterrato e desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti. Questi segni gli parlano di una guerra che non ha conosciuto e i suoi occhi guardano verso il cielo nello spasimo di amarne la trasparenza. Sarà così per sempre, come lo è stato per me: abitare le tracce di un ignoto disastro ed offrire ogni cosa ad una vertigine nuova e distante. Così il sogno della poesia».
In Carifi le immagini che costantemente ritornano, almeno fino circa ai tre quarti del suo svolgimento poetico, sono non a caso tutte figure di una lacerazione «irreparabile» (l’aggettivo è suo). Possiedono un carattere costretto, ossessivo, che non conosce svolgimento o via d’uscita. È lui stesso a definirsi «un poeta abitato dall’addio». Ma anche: «La soglia è il mio destino». E questo resta vero sia per le prime raccolte, dove le immagini procedono per tagli e raccordi secchi, violenti, sempre almeno un poco oscuri (Carifi e gli altri hanno creduto nella potenza evocativa della poesia, non c’è che dire; forse fin troppo), sia nella compiuta maturità, quando il suo dettato poetico diventa un poco più sciolto e cordiale. Prima della svolta verso l’Oriente, segnata anche dal confronto con la malattia — ma, del resto, l’Occidente fin da subito era visto come un luogo di decadenza e di «crepuscolo» — il meglio di Carifi si trova appunto qui, nel quindicennio che va dalla fine degli anni Ottanta all’inizio del nuovo millennio. È proprio allora, tra l’altro, che il motivo dell’infanzia si prolunga in quello straziante e dolcissimo della perdita della madre, a cui questo poeta ha dedicato le sue poesie forse più belle: «Ma dimmi, madre, la tua preghiera/ che nasca al mattino, che fiorisca la sera/ dilla nel vento, al gelo dalla in dono/ che gli occhi si sciolgano al perdono».