Corriere della Sera - La Lettura

Arriva la piena: tu sei Noè, anzi niente

Romanzi filosofici Philippe Forest avvia il suo nuovo volume disseminan­do indizi e allusioni, al punto da lasciar supporre una sorta di autofictio­n. Invece no. Entra poi in scena un diluvio quasi biblico che porta con sé consideraz­ioni nichilisti­che

- Di DEMETRIO PAOLIN

Philippe Forest con il suo romanzo Piena (traduzione di Gabriella Bosco, Fandango) si conferma uno degli autori più difficilme­nte collocabil­i della letteratur­a europea. Lo si potrebbe definire un autore barocco per la capacità di lavorare sulla dissimulaz­ione, sullo specchiame­nto e sulla confusione di identità che furono tipiche dell’arte secentesca, ma che bene si adattano al tempo attuale e ciò che lo scrittore francese va scrivendo in questo romanzo. Intanto: Piena è un romanzo? Forrest, sin dall’incipit, sembra giocare su un tratto di ambiguità che cresce nel proseguire la lettura. Il protagonis­ta, che non ha un nome, inizia a raccontare — il testo è in prima persona — una storia, che per quanto bizzarra e folle lui sostiene di essere vera. La voce narrante definisce il suo racconto come una testimonia­nza, rispetto ad alcuni fatti — che lui descrive come un’epidemia — che sono accaduti a lui, ma che riguardano l’intera umanità.

La prima parte del testo è appunto il girare intorno a quest’«evento» ma senza che esso venga descritto. Si addensano sul lettore una serie di riflession­i e congetture che fanno pensare a come l’io narrante sia paranoico, un moderno uomo del sottosuolo, che nella sua solitudine e nella sua distanza dagli altri vive una sorta di crasi tra mondo reale e mondo immaginato.

L’uomo vive in un condominio, pressoché disabitato (un rimando al Condo

minio di Ballard?) e ha una storia alle spalle triste: aveva una figlia, ma è morta, ed è tornato alla città, in cui è nato, per assistere la madre morente. Questi dati portano il lettore a costruire una prima labile identifica­zione tra io narrante e autore, visto che Forest ha raccontato la morte della propria figlia nello straziante Tutti i bambini tranne uno (1997).

Quando si crede di aver trovato una possibile chiave di lettura, il romanzo fa una virata e si stacca dal dato auto-finzionale e il protagonis­ta ci racconta di un rogo di un edificio, adiacente al palazzo in cui vive, e che fa entrare in scena altri due personaggi, un uomo e una donna, anche loro senza un nome.

In questa parte il protagonis­ta, fatalmente, si innamora della donna, una musicista bravissima, e diventa amico dell’uomo, scrittore alcolizzat­o, chiuso nel suo appartamen­to a redigere un libro a proposito di un evento bizzarro e tremendo che coinvolge tutta l’umanità.

Il protagonis­ta si divide tra l’amore carnale con la donna — un amore fatto di molti silenzi e confidenze minime, e tra queste veniamo a sapere che anche lei ha subito la perdita di un figlio — e i deliri dello scrittore che cerca di convincere l’uomo di una sua teoria, legata al fatto che esista qualcosa che inghiotte le persone senza un motivo e le fa scomparire.

Piena è come uno specchio che moltiplica e deforma: il narratore, a cui è morto un figlio e vuole raccontare la storia di un evento tremendo, un’epidemia, incontra una donna a cui è morto un figlio e un uomo che sta scrivendo un libro a proposito di qualcosa di terribile che accadrà al mondo intero. Proprio nel momento in cui tutto sembra chiarirsi ai nostri occhi di lettori, Forest introduce un nuovo episodio che fa sì che le teorie dell’uomo sembrino reali.

Un giorno il protagonis­ta si sveglia e la donna e l’uomo sono spariti. Questa sparizione produce nell’uomo una crisi che si lega a un evento naturale devastante: una piena del fiume che distrugge e mette in ginocchio l’intera città. La piena del fiume, descritta in modo magistrale, assume una sorta di connotazio­ne apocalitti­ca: è un diluvio, che isola l’uomo e lo fa sentire come una sorta di nuovo Noè. Quando tutto sembra ricomporsi in qualcosa reale e verosimile, come lettori immaginiam­o che questo sia l’evento traumatico, di cui il narratore voleva portare testimonia­nza, avviene un ultimo e definitivo colpo di scena che trasforma Piena in un romanzo filosofico. Così le ultime 40 pagine affrontano il vero tema, più volte anticipato, più volte suggerito, ma qui finalmente messo a nudo del romanzo: il niente e il vuoto che dominano il mondo.

Ecco perché pare calzante la definizion­e di Forest come scrittore barocco. Se c’è un’immagine, su cui il barocco, soprattutt­o quello francese dei nienti

sti, si è concentrat­o, è appunto quella riguardant­e il niente/vuoto. Il protagonis­ta vede tutte le cose sparire; alcuni hanno la fortuna o la dannazione di avere chiaro questo movimento di scomparsa. E nel finale la voce narrante desidera sparire come è accaduto alla donna e all’uomo, come è accaduto a sua madre e alla figliolett­a, e alle persone che ha amato.

Piena è un romanzo sull’indifferen­za della natura al nostro destino, sul niente delle nostre vite ma anche una riflession­e sul potere della scrittura, su questa forma paranoica di dare senso a ciò che accade, e ci rende ciò che siamo.

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