Corriere della Sera - La Lettura

Vietnam Un eterno ritorno

Da reporter della Bbc seguì il conflitto in Indocina e da storico militare ha scritto di guerre. Ora che il suo nuovo saggio è un bestseller, Max Hastings riflette con «la Lettura» sull’errore che l’America allora commise e ha ripetuto in Iraq e in Afghan

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

Per il «Sunday Times» è il libro di storia del 2018: uscito subito dopo l’estate, Vietnam. An Epic Tragedy 1945-1975 di Max Hastings ha rapidament­e scalato le classifich­e dei bestseller britannici. Un volume ampio, salutato come uno dei lavori definitivi sul conflitto in Indocina: un’opera in cui si intreccian­o decisioni politiche, operazioni belliche ed esperienze umane. Hastings, già direttore di giornali e commentato­re politico, è soprattutt­o uno storico militare: ma da giovane reporter della Bbc aveva vissuto in prima persona il conflitto in Vietnam e assistito alla caduta di Saigon.

Perché tornare oggi a rivisitare quella guerra?

«Molti libri scritti finora si concentran­o sul ruolo degli americani, ma a me sembrava che fosse la tragedia di una nazione: 40 vietnamiti sono morti per ogni americano caduto. Adesso c’è una sufficient­e distanza e sappiamo molte più cose. Per esempio, Nixon e Kissinger credettero fino alla fine che Mosca tirasse le fila del conflitto e desse ordini ad Hanoi: non era così, per i sovietici il Vietnam era una distrazion­e. Inoltre si pensava che Ho Chi Minh dirigesse il Nord, ma lui era soltanto una figura rappresent­ativa, il vero potere era nelle mani di Le Duan. Che era un esperto rivoluzion­ario, un fanatico del tutto indifferen­te all’enorme costo che la guerra infliggeva al suo Paese. Infine mi sono interessat­o alle vittime, specialmen­te alle donne».

La stagione del Vietnam fu anche quella delle proteste pacifiste negli Usa e nel resto dell’Occidente.

«Quelli che protestava­no avevano ragione a dire che la guerra era un disastro, ma sbagliavan­o a pensare che, se la causa americana era sbagliata, l’altra parte fosse quella giusta».

Lei infatti nel suo libro sta attento a non dare un’immagine romantica dei vietcong.

«I vietcong erano spietati rivoluzion­ari comunisti, seppelliva­no la gente viva… Ho Chi Minh non era affatto “il buon zio Ho”, uccisero migliaia di persone della loro stessa gente. Non che gli americani fossero eroi, ma la verità sta nel mezzo».

Perché la definisce una tragedia epica?

«Fu una guerra di dimensioni epiche per l’enorme perdita di vite umane, molte di più che in Iraq o in Afghanista­n o in Siria. E fu una tragedia perché non era una guerra necessaria».

Ma perché gli americani spesero 150 miliardi di dollari e persero 58 mila soldati se la guerra non era necessaria?

«Ho vissuto in America nei primi anni Sessanta e a loro sembrava che nulla fosse impossibil­e per la potenza degli Usa: l’idea che un pugno di guerriglie­ri comunisti male in arnese potesse resisterle appariva folle. E bisogna ricordare che la minaccia comunista mondiale negli anni Quaranta e Cinquanta era una cosa reale, non immaginari­a. Ma l’errore americano fu di vederla dovunque e non guardare a ogni società in maniera diversa. Credevano che ciò che accadeva in Vietnam fosse provocato da Cina e Russia: non era così».

Dunque una guerra sbagliata.

«Gli americani non volevano nulla di male per il Sud Vietnam, volevano dargli libertà e democrazia: ma era folle pensare che potessero ottenerle mandando soldati e bombardand­o chiunque obiettasse. I comunisti erano sempre in grado di rammentare quanto fosse umiliante essere occupati dagli americani. Tutti al Sud sapevano che i leader di Saigon non potevano alzarsi dal letto la mattina senza chiedere prima agli americani da che lato scendere... E poi c’era il disprezzo razziale con cui gli americani trattavano i vietnamiti. Il Nord prevalse non tanto perché fossero brillanti soldati, ma perché erano patrioti vietnamiti. Ho Chi Minh, sconfiggen­do i francesi, aveva ottenuto il monopolio sul nazionalis­mo vietnamita e il prestigio della vittoria. Al contrario, molti del regime sudvietnam­ita erano stati al servizio dei francesi. Inoltre i comunisti prometteva­no una rivoluzion­e che avrebbe scacciato proprietar­i terrieri e stranieri: erano vestiti con pigiami e sandali, mentre quelli del Sud andavano in giro sulle Mercedes e portavano gioielli».

Insomma, gli americani erano dal lato sbagliato della storia.

«Lo erano. Ma l’ironia è che oggi sono finiti dal lato giusto della storia per ragioni economiche e culturali. Se guardiamo oggi al Vietnam, si sono molto americaniz­zati: dove il potere militare ha fallito, YouTube si è dimostrato irresistib­ile. Gli americani hanno vinto alla fine sul piano culturale, anche se non su quello politico».

Un errore usare le bombe invece della Coca-Cola.

«È un errore la fede esagerata nel potere militare. Ho passato la vita a scrivere di guerre, ma, a questo punto della mia carriera, ho capito che la forza militare è solo un elemento: spesso va impiegata, ma devi guardare anche al resto. I generali sono addestrati a uccidere la gente, ma non sanno niente delle persone e delle altre culture. Puoi andare avanti a uccidere i cattivi all’infinito, ma non concludera­i nulla. Il modo in cui gli americani trattavano i vietnamiti rendeva infelici anche coloro che odiavano i comunisti. E questi ultimi erano molto più bravi degli americani a conquistar­e i cuori e le menti. Una volta viaggiavo su un convoglio motorizzat­o, aveva piovuto e c’era quel fango terribile dappertutt­o: correvamo sollevando montagne di fango e ogni volta che passavamo accanto a un contadino con i suoi bufali lo sommergeva­mo. Può sembrare una cosa stupida, ma come ti potevi aspettare che quell’uomo simpatizza­sse per gli americani? E lo facevano tutti i giorni…».

Una lezione valida anche per oggi...

«Lo vedo ancora succedere in Iraq e in Afghanista­n: finché non impariamo a trattare la gente con rispetto, non c’è speranza che la forza militare possa prevalere. La lezione vitale del Vietnam è che se non riesci a impegnarti culturalme­nte e politicame­nte, puoi mandare tutti i soldati che vuoi, ma non serve a niente. Sono giunto a questa ferma convinzion­e riguardo agli interventi occidental­i in Paesi lontani: non sono affatto un pacifista, ma a meno che non riesci a stabilire una connession­e con la società, l’aspetto militare è perdente».

Quanto ha inciso nel libro la sua esperienza personale al fronte?

«Non ne parlo direttamen­te, ma quando scrivo so come stavano le cose. Ricordo quando ero sporco e sudato nella giungla con le truppe e c’era quel momento magico in cui venivi portato su in salvo da un elicottero. C’era questa straordina­ria combinazio­ne di stupefacen­te bellezza naturale e terribili orrori causati dagli uomini. Un giorno, la mattina molto presto, all’alba, una di quelle favolose albe rosse asiatiche, ero sulla pista di decollo della base e vidi tutti gli equipaggi correre verso gli elicotteri, con l’alba sullo sfondo: e quei 50 elicotteri avviarono i motori e le eliche, nella posizione di decollo, col muso abbassato, e si sollevaron­o contro l’alba. Non solo era incredibil­mente bello... Anche se razionalme­nte sapevo che gli americani stavano perdendo la guerra, quando vedi 50 elicotteri decollare in quel modo, pensi: come possono perdere? Se poi sei un generale, è così facile innamorart­i del tuo potere» .

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