Corriere della Sera - La Lettura

Musulmani in fuga dalla Birmania: una crisi, tre fronti

La persecuzio­ne dei rohingya ha radici antiche che forse spiegano i silenzi di Aung San Suu Kyi. Nuovi volumi indagano

- Di MARCO DEL CORONA

Dalla fine dell’agosto 2017 si calcola che più di 670 mila musulmani rohingya abbiano lasciato il Myanmar (la ex Birmania) per trovare rifugio in Bangladesh, scampando a eccidi, violenze e villaggi incendiati. Le autorità di Dacca dicono di averne accolto quasi un milione e 100 mila mentre il governo birmano ammette che il 90% della popolazion­e musulmana delle tre province più settentrio­nali dello stato di Rakhine se n’è andato. I morti, soprattutt­o: Medici senza Frontiere stima che almeno 6.700 siano le vittime rohingya delle violenze etniche. Le cifre rendono a malapena una tragedia che destabiliz­za la regione, turba le opinioni pubbliche e ha già compromess­o il prestigio di Aung San Suu Kyi, il premio Nobel per la pace al governo in Myanmar, accusata prima di insensibil­ità verso la minoranza rohingya e poi di connivenza con la repression­e dei militari e con i raid degli estremisti buddhisti.

Il disastro del Rakhine covava ben prima dello stupro e dell’omicidio di una sarta buddhista che, nel giugno 2012, scatenò la più recente ondata di pogrom antislamic­i. La crisi, etnico-politica e umanitaria, ha già rallentato la transizion­e del Myanmar alla democrazia dopo decenni di dittature militari, un passaggio al quale l’Occidente ha guardato con un ottimismo eccessivo: una benevolenz­a alimentata, peraltro, dall’appetito per le risorse naturali del Paese, per la sua posizione strategica e la manodopera a basso costo. Le diplomazie assistono impotenti o incapaci, le raccomanda­zioni del 2017 della commission­e guidata da Kofi Annan restano di fatto lettera morta. Tuttavia «la violenza nel Rakhine non si attaglia allo schema netto ma semplifica­tore dei militari cattivi contro i civili buoni», avverte Francis Wade. Il suo Myanmar’s Enemy Within (2017) è uno dei libri che affronta la questione. Non solo indaga l ’a f fe r marsi di movimenti buddhisti estremisti e antislamic­i come il Ma Ba Tha (attivi ben oltre il Rakhine e non solo contro i rohingya), ma osserva come nel Paese «la storia della transizion­e abbia a che fare, più di ogni altra cosa, con il senso di identità e di appartenen­za». E anche gli ancora più recenti saggi di Azeem Ibrahim ( The Rohingyas, nuova edizione) e di Anthony Ware e Costas Laoutides ( Myanmar’s «Rohingya» Conflict, dal quale sono tratti i dati citati in apertura) si muovono su questa linea provando a spiegare un conflitto «intrattabi­le».

Azeem Ibrahim, accademico con trascorsi ad Harvard e Yale, parla di genocidio tout court. «La persecuzio­ne dei rohingya — nota — è stata pianificat­a in modo deliberato dallo Stato fin dagli anni Sessanta», cioè da quando, con il golpe di Ne Win (1962), la Birmania inaugurò un quarantenn­io di regimi xenofobi. Fu allora che venne sancita l’esclusione dei rohingya dalle 135 etnie ufficialme­nte riconosciu­te. Ibrahim sostiene che Aung San Suu Kyi non abbia mai preso le distanze dagli abusi nei confronti dei musulmani del Rakhine perché origini e ideologia della sua Lega nazionale democratic­a (Nld) non sono poi tanto diverse da quelle delle forze armate e del loro p a r t i to ( Us dp) . S i t r a t t a — s o s t i e ne Ibrahim — di formazioni figlie di un’élite urbana senza legami con campagne e strati popolari, trasformat­esi in «partiti etnici», espression­e del gruppo egemone birmano (bamar). Tant’è vero che, con le elezioni democratic­he del 2015, «per la prima volta dall’indipenden­za, in parlamento non siede neppure un deputato musulmano», a prescinder­e dall’etnia di appartenen­za. Lo stesso clero buddhista, già dalle manifestaz­ioni per la democrazia represse nel sangue nel 1988 e nel 2007 alle quali aveva partecipat­o, si è via via radicalizz­ato. Arrivando a far coincidere fede e cittadinan­za e «accordando un minor valore a ogni non-buddhista» (questo soprattutt­o racconta Wade).

Ware e Laoutides, accademici attivi sul campo, si impongono uno sforzo di equilibrio. Insistono: in Rakhine i legami con il potere centrale sono sempre stati difficili anche per i buddhisti. I birmani infatti sottomiser­o il regno indipenden­te e multiconfe­ssionale del Rakhine solo nel 1784, anno del primo esodo di musulmani (altri seguirono nel 1942, nel 1978 e nel 1991-92). Durante la Seconda guerra mondiale, poi, rohingya musulmani e rakhine buddhisti combattero­no su fronti opposti, i primi con i britannici, i secondi con i giapponesi. Una storia di frammentaz­ione, dove non vanno dimenticat­e la «rabbia profonda, persino l’aperta violenza fra rakhine e rappresent­anti dello Stato birmano». Il Rakhine, dunque, conosce un «conflitto multipolar­e» che coinvolge la popolazion­e buddhista locale (i rakhine, appunto, ben distinti dai bamar della Birmania centrale), quella musulmana (le cui tracce risalgono all’anno Mille, in opposizion­e alla propaganda secondo la quale sono immigrati recenti) e il potere centrale, incarnato soprattutt­o dall’esercito (Tatmadaw). Ciascuno dei tre gruppi ha una sua «narrazione» da difendere: l’«origine» per i rohingya (avere pieno titolo, cioè, per essere cittadini del Myanmar), l’«indipenden­za» per i rakhine (che aspirano a una forte autonomia, se non alla sovranità) e l’«unità» nazionale per i birmani.

Signori coloniali dal 1826 al 1948 della Birmania (che fino al 1937 era parte dell’India), i britannici ci hanno messo del loro, introducen­do «la distinzion­e fra gruppi autoctoni e non» e, con questa, «divisioni ancorate alle nozioni europee di razza, confine e territoria­lità» che mal si conciliava­no a un universo di identità «fluide, porose e flessibili». Anche di fronte alle cruente azioni armate dell’esercito e delle milizie etniche (l’«Aa» dei rakhine e l’«Arsa» dei rohingya), lo status burocratic­o dei rohingya rischia così di apparire il corollario a una questione di metodo più rilevante, perché «è importante trattare l’“etnicità” — scrivono Ware e Laoutides — come categoria pratica e sociale, non entità definita e statica prodotta da un’appartenen­za netta»: in un conflitto «sono più spesso i gruppi organizzat­i e non le “etnie” a essere implicati in azioni violente». C’è posto per tutti, in Myanmar. E per cominciare a disinnesca­re il dramma (forse) occorre riconoscer­ne la complessit­à: «Non si tratta di un conflitto sulla cittadinan­za negata, sulla non appartenen­za a uno Stato, sugli interessi economici, l’identità, l’etnia o il territorio in sé. Piuttosto riguarda in primis la possibilit­à dell’inclusione, in termini di parità, dei rohingya e (in misura minore) dei rakhine nella comunità politica dell’Unione del Myanmar». Un posto dove stare, un nome da portare.

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