Corriere della Sera - La Lettura
La fantasia va agganciata alla ricerca
La storia, scienza molto vulnerabile, è preda di scorribande
Il crescente successo delle serie storiche televisive, ma anche quello del mercato editoriale dei romanzi storici, sta rilanciando un tema su cui ci si accapiglia da oltre trent’anni: il rapporto tra storia e fiction storica. Un tempo si sarebbe detto che la prima si proponeva come disciplina vincolata da documenti, mentre la seconda rivendicava un’interpretazione fantastica degli eventi. Da anni, però, tale rassicurante cesura — che aveva spinto Leopold von Ranke, emblema della storiografia accademica, a condannare i romanzi storici come quello di Walter Scott, imperniato sulle gesta dell’eroe medievale Ivanohe — è stata messa in discussione. Negli ultimi tempi, anche in questo ambito, la disintermediazione delle competenze ha finito per abbattere la fragile barriera delle conoscenze professionali dello storico, il quale si è ritrovato narratore, tra i tanti improvvisati narratori del passato.
La mancanza di un rigido statuto «scientifico» sta trasformando la storia, più vulnerabile di altre discipline, in facile preda delle scorribande postmoderne della soggettività. La storia piace se mette in scena affreschi di vicende e personaggi, eroi e malvagi, memorie individuali e collettive, sorprese ed emozioni. Un’immagine, questa, che finisce per rendere ben più sciolta la briglia nella scrittura di romanzi e di sceneggiature in una fase in cui cresce la domanda di storia. È un bene? È un male? È semplicemente un fatto. La grande domanda di racconto storico non significa ovviamente che la storia sia in buona salute. Sono evidenti a tutti il declino del suo ruolo politico, la sua difficoltà ad essere percepita come palestra di sapere critico, la sua riduzione a contenitore di reliquie nostalgiche o ricreative.
Viene da chiedersi se proprio l’immagine di parzialità tematica, di appiattimento sul versante narrativo non sia tra i fattori del discredito della storia e di successo dell’«invenzione», in un’età che ha dichiarato la «fine delle grandi narrazioni». Proprio per questo, quindi, rilanciare la centralità della storia significa impegnarsi affinché, nella fiction come nei saggi e nei romanzi, non manchi mai una stretta connessione con la ricerca storica — a partire dall’attenzione ai pericoli dell’anacronismo e delle mancate contestualizzazioni spesso presenti nel superficiale ricorso ai documenti — imprescindibile riferimento della credibilità di ogni narrazione incentrata su eventi passati. In questo senso sarebbe ormai opportuno mettere fine alla querelle del rapporto tra fiction e storia in termini di contrapposizione tra divulgativo e scientifico. Non solo perché molti storici si sono da tempo avventurati nel «romanzo storico», ma soprattutto perché cercare di avvicinarsi, attraverso la presentazione dei fatti, alla verità storica, dipende dal grado di accuratezza della ricostruzione, più che dalla sede in cui questa avviene, che pure non è neutra. Chi, tra i lettori più attempati, ricorda, un esempio tra tanti, Vita di Cavour, lo sceneggiato televisivo in quattro puntate trasmesso dalla Rai nel 1967, sa bene come una serie può essere in grado di riprodurre le molteplici sfaccettature di una fase storica attraverso la credibile e accurata ricostruzione dell’interazione dei protagonisti dell’epoca, a cominciare da un Cavour magistralmente interpretato da Renzo Palmer. Il valore di quella che oggi si definirebbe una miniserie, al di là dell’impostazione narrativa e dei tempi scenici, non più adatti ai gusti della nostra epoca, è nella sua attenzione a non scadere nel romanzato, nel non sacrificare l’accuratezza e la credibilità storica sull’altare della narrazione, spettacolare quanto semplificatrice.
È questa la linea che gli storici dovrebbero difendere: non tutto quello che ha uno sfondo storico è storia. Chi segue una fiction ambientata nel mezzo di grandi eventi passati non deve essere automaticamente indotto a pensare che si stia occupando di storia. Questa infatti non esiste se viene ridotta, come diceva Gustav Droysen, a una «verità da eunuchi», sterile e aproblematica, simpatico passatempo. Da questo punto di vista risulta strategico sostenere la Rai nel suo meritorio sforzo di coniugare intrattenimento e credibilità storica, sollecitandola proprio sul terreno della complessità che è lo «specifico» con cui la storia si distingue dalle scienze sociali e dalla loro prerogativa di formulare «leggi». E quindi perché non far precedere le serie storiche da un breve e vivace intervento di uno studioso che, come Giuseppe Ungaretti negli anni Settanta per l’Odissea, segnali non solo l’importanza del tema, ma anche il senso e gli eventuali limiti storiografici dell’operazione? Forse così si potrebbe ridurre il pericolo lucidamente denunciato da Paolo Prodi, secondo cui «se la storia non c’è come ricerca, la si inventa come fiction».