Corriere della Sera - La Lettura
Che pigri questi giapponesi
Caratteri nazionali Gli stereotipi oggi tornati in voga cambiano radicalmente nella storia. Noi italiani un tempo eravamo considerati un modello di virtù da imitare, mentre i tedeschi venivano descritti come gente emotiva, istrionica e disonesta. Si dicev
Quando piroettano più volte su sé stesse, le ballerine devono fissare sempre lo stesso punto per evitare di cadere. Allo stesso modo, in un’epoca di rapidi sommovimenti come la nostra, sono in molti a cercare punti di riferimento stabili da fissare, per non cadere. E quando si crea la domanda, l’offerta segue prontamente: mai come oggi sono spuntati da ogni parte i più bizzarri procacciatori di identità; spesso, proprio come avviene sul mercato, di identità low cost, paccottiglia raffazzonata ma a buon prezzo, per battere la concorrenza.
Su quel mercato, però, esistono anche prodotti un po’ meno dozzinali: uno dei quali è il «carattere nazionale». L’idea che i diversi popoli siano dotati di un carattere distintivo permanente non è certo nuova, ma è tornata particolarmente in voga oggi, in un’epoca di scambi d’accuse tra europei del nord «freddi, precisi e laboriosi» e europei del sud «calorosi, arruffoni e pigri»; senza dimenticare gli inglesi, che non si sa se sono ancora europei, ma che rimangono comunque «affettati, alteri e incapaci di cucinare» (anche se molto meno «flemmatici», da due anni e mezzo a questa parte).
Da Erodoto e Aristotele in poi, il «carattere nazionale» è servito a dare uno spessore «oggettivo» alle descrizioni dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni dei diversi Paesi. Se si scava un po’ più in profondità, però, si scopre che quelle descrizioni hanno sempre patito di due difetti principali, che finiscono per invalidarne l’attendibilità: sono frutto di un’impressione soggettiva esterna; e sono strettamente congiunturali, cioè legate all’epoca in cui sono espresse. In altre parole, il «carattere nazionale» si muove nello spazio e nel tempo.
Gli spostamenti nello spazio sono, a volte, divertenti. I francesi usano dire che gli italiani parlano agitando le mani; secondo una battuta popolare, in caso di naufra- gio, gli italiani sarebbero i soli a sopravvivere perché, continuando a parlare tra di loro, riuscirebbero a restare a galla. E poi si scopre, in uno dei folgoranti dialoghi di Wodehouse, che per i britannici sono invece i francesi ad avere l’irritante vezzo di parlare dimenando convulsamente gli arti superiori. Insomma, si è sempre i meridionali di qualcuno...
Sugli stereotipi nazionali sono stati fatti studi seri. In uno di questi — National Character and Personality, pubblicato nel 2006 sulla rivista «Current Directions in Psychological Science» — gli autori hanno verificato una netta discrepanza tra gli stereotipi culturali sui popoli e le caratteristiche personali di un campione di individui appartenenti a quegli stessi popoli; la loro conclusione fu che, a dispetto della popolarità di certe rappresentazioni, «non appare esserci neppure un grammo di verità negli stereotipi sul carattere nazionale... Gli stereotipi sul carattere nazionale non sono neppure esasperazioni di differenze reali: sono pura finzione».
Come si diceva, le presunte caratterizzazioni «oggettive» si sono modificate anche nel tempo. In un saggio dedicato agli stereotipi nazionali tra il Cinquecento e l’Ottocento, pubblicato nel 1999, lo storico Jean-François Dubost ricordava che, lungo quei quattro secoli, i tedeschi furono generalmente descritti come ubriaconi, zotici e duri di comprendonio; ancora nel 1828, il viaggiatore britannico John Russell scriveva che non erano «dotati né di grande acutezza di percezione né di rapidità di sentire»; in generale, nella prima metà dell’Ottocento, cioè prima del loro straordinario successo industriale, i tedeschi erano considerati emotivi, istrionici e disonesti (secondo quanto riferiva Sir Arthur Brooke Faulkner, medico dell’esercito di sua maestà), indolenti (secondo Mary Shelley, l’autrice di Frankenstein), disposti a lavorare solo quando ne hanno voglia (secondo un industriale francese), e quindi, per forza di cose, «avulsi da ogni spirito di iniziativa e di impresa» (secondo un altro viaggiatore britannico). Le loro infrastrutture, d’altronde, erano considerate pessime: John MacPherson, già viceré dell’India, scrisse che le strade in Germania erano in uno stato così deplorevole «che decisi di orientare il mio viaggio verso l’Italia».
L’economista coreano Ha-Joon Chang, a cui dobbiamo alcune delle citazioni riportate sopra, riferisce che anche i giapponesi, prima del loro decollo industriale, erano considerati «più pigri che industriosi; più individualisti che leali “formiche operaie”; più emotivi che imperscrutabili; più spensierati che riflessivi; più interessati a godere dell’oggi che ad accumulare per il domani». Nel 1903 un missionario americano, Sidney Gulick, che aveva vissuto nell’arcipelago 25 anni, scriveva che gli abitanti del Giappone erano «apatici e totalmente indifferenti allo scorrere del tempo». Nel 1915, un consulente aziendale australiano ritirò un progetto di investimento perché i giapponesi erano «una razza soddisfatta e spensierata», cioè, si leggeva tra le righe, non avevano voglia di lavorare; e commentava sconsolato: «È impossibile cambiare abitudini insite nella cultura nazionale». Nel Rinascimento, gli italiani — anche se non è molto chiaro di quali «italiani» si parlasse a quel tempo, data la divisione della penisola in molti Stati — erano considerati il modello da imitare e l’unità di misura di tutte le virtù. Un testo anonimo francese del 1614 si ispirava alla tesi aristotelica del «giusto mezzo» per affermare che, mentre i francesi erano «avventati e leggeri» e gli spagnoli «grevi e svogliati», gli italiani stavano «nel mezzo, dove si trova la virtù, nazione comunemente stimata la più saggia e la più avveduta del mondo». Anche per lo scrittore e viaggiatore francese Loys Le Roy, che scriveva nel 1576, gli italiani «eccellono in tutti i mestieri, a cui si dedicano con assoluta abnegazione».
Quando però, nel secolo successivo, il declino della penisola divenne palese, l’opinione sui suoi abitanti cambiò radicalmente. Gli italiani furono considerati allora disordinati, rissosi, infidi; Louis de Saint-Simon, che scriveva alla fine del Seicento, insisteva sulla loro smodatezza: sul terreno delle brame corporali, asseriva il duca, la loro esuberanza era tale da praticarne tutte le varianti, comprese quelle «contro natura». Si noti, a tal proposito, che lo sguardo portato su un popolo dall’esterno e lo sguardo che quello stesso popolo ha di sé coincidono raramente: l’Italia fu, nel 1889, uno dei pochi Paesi al mondo in cui il reato di sodomia fu escluso dal codice penale. E non fu reintrodotto dal fascismo perché, argomentò il guardasigilli Alfredo Rocco, «il turpe vizio, che si sarebbe voluto colpire, non è così diffuso in Italia da richiedere l’intervento della legge penale».
Tutto si sposta e cambia significato nel tempo. Le nobili qualità cavalleresche attribuite agli spagnoli all’epoca del loro apogeo vennero considerate insopportabile affettazione e superbia più tardi, quando gli stereotipi
L’accusa di imitare i prodotti delle economie più avanzate, oggi rivolta ai cinesi, nell’Ottocento sarebbe stata calzante per gli Stati Uniti, che agivano così verso il Paese tecnologicamente più progredito di quell’epoca, la Gran Bretagna
negativi furono sfruttati dalla propaganda antispagnola nata per motivi politici nelle Fiandre, e poi esportata in Inghilterra e in Francia. Una «circolazione di stereotipi tra le nazioni», scrive Dubost, si è prestata a ricoprire certi ruoli caratteriali specifici: tra il Rinascimento e l’Ottocento, «l’Europa ha con tutta evidenza bisogno di popoli malinconici e di popoli spacconi: sono, di volta in volta o anche simultaneamente, gli spagnoli e gli inglesi per la malinconia, gli italiani poi gli spagnoli per la spacconeria. Ci vogliono anche popoli che portino la responsabilità del vizio e della depravazione: per i francesi sono gli italiani, per i tedeschi sono i francesi».
Quando gli inglesi cominciarono ad arricchirsi, per dileggiare la persistente povertà dei loro vicini ed eterni rivali francesi si misero a chiamarli Froggies, cioè, per metonimia, mangiatori di rane. Ma dall’inizio del Settecento quello stesso appellativo fu trasferito agli olandesi, un po’ in riferimento alle loro lande paludose e un po’ in riferimento alla rana messa in scena da Esopo, Fedro e La Fontaine, che esplode nel tentativo di farsi grossa come il bue: l’allegoria, trasparente, voleva irridere la velleitaria ambizione olandese di eguagliare in ricchezza e potenza l’Inghilterra. Quando poi furono i francesi a sfidare i britannici su quel terreno, il titolo di Froggies tornò a loro, sui quali è restato appiccicato fino ai nostri giorni.
È interessante notare come certi stereotipi seguano in maniera quasi lineare l’evoluzione delle relazioni economiche tra i diversi Paesi. Nel 1576, Loys Le Roy notava che i francesi erano «molto industriosi nell’imitare esattamente ciò che vedono fatto altrove, e poi a rifarlo», dove «altrove» si riferisce quasi certamente all’allora molto più progredita Italia. Sono gli effetti collaterali degli ineguali ritmi di sviluppo: l’accusa di imitare i prodotti dei Paesi più avanzati è stata mossa con asprezza ai giapponesi dagli anni Sessanta in poi e ai cinesi oggi, e sarà rivolta ad altri domani. Dani Rodrik, economista ad Harvard, ha scritto a questo proposito che «le pratiche cinesi non sono molto diverse da quelle che tutti i Paesi avanzati hanno storicamente adottato quando ancora stavano rincorrendo altri più avanzati di loro. Nell’Ottocento, gli Stati Uniti erano — in relazione al Paese tecnologicamente più progredito del tempo, l’Inghilterra — nella stessa posizione in cui si trova oggi la Cina nei confronti degli Stati Uniti. E gli americani avevano la stessa considerazione per i segreti commerciali dell’industria inglese che hanno oggi i cinesi per i diritti della proprietà intellettuale americana».
Il «carattere nazionale», insomma, sempre che esista, di sicuro è sfuggente come un’anguilla. Con una celebre e simpatica boutade, Jean Cocteau un giorno ha detto che «i francesi sono degli italiani tristi»; alla luce degli attuali chiari di luna, è dubbio che gli italiani siano ancora dei francesi allegri.