Corriere della Sera - La Lettura

La governante di Roth «Vi racconto com’era»

- Di MARCO BRUNA

Estela Solano è stata per 31 anni la governante dello scrittore, che sul letto di morte, a maggio, si ricordò di un piccolo debito che aveva con lei: 800 dollari; fu allora che chiese a Benjamin Taylor, amico e scrittore anche lui, di saldarlo. Abbiamo raggiunto Solano nella sua casa nel Queens. Quella che segue è la storia di un affetto straordina­rio. E di un dispettoso animale, creatura inedita della fantasia del romanziere

Philip Roth ha trascorso le ultime tre settimane di vita nell’unità di terapia intensiva cardiologi­ca del Presbyteri­an Hospital di New York, dove è morto il 22 maggio 2018 a 85 anni. Tra le persone che gli sono state vicine c’era anche l’autore americano Benjamin Taylor, il cui elogio funebre è stato pubblicato su «la Lettura» #367 del 9 dicembre. In quelle pagine Taylor ha scritto che Roth, sul letto di morte, si ricordò di un piccolo debito che aveva con la signora Solano, la sua governante per oltre trent’anni. Grazie all’aiuto di Blake Bailey, biografo ufficiale del grande scrittore (il suo monumental­e lavoro uscirà nel 2021), «la Lettura» ha raggiunto al telefono la signora Solano, 68 anni, che nel testo qui sotto rivela la storia di quel debito e racconta la sua vita con Philip Roth, dal primo giorno di lavoro nel suo appartamen­to alle ultime parole che ha scambiato con lui in ospedale, il 17 maggio scorso. Dai suoi ricordi emerge il ritratto di un uomo generoso, riservato ma felice di stare tra le persone; uno scrittore aggrappato a una feroce routine — fino al 2010, l’anno in cui venne pubblicata la sua ultima opera, «Nemesi», scriveva a ritmi forsennati —, amante dell’ordine e della precisione, che non dimenticav­a gli amici bisognosi d’aiuto. Nell’anno in cui sono scomparsi, oltre a Roth, alcuni grandi protagonis­ti della letteratur­a (Aharon Appelfeld, Ursula K. Le Guin, Tom Wolfe, V. S. Naipaul, Guido Ceronetti tra gli altri), la testimonia­nza in prima persona della signora Solano rappresent­a il ritratto più umano di Philip Roth, che si aggiunge ai numerosi omaggi letterari apparsi dopo la sua morte.

«Ho due grandi rimpianti: non ho mai fatto una fotografia con Mr. Roth e non gli ho mai raccontato della mia nipotina Emiliana, che adesso è una meraviglio­sa peste di diciotto mesi. Mi chiamo Rosestela Solano, ma tutti mi chiamano Estela. Ho trascorso metà della mia vita con Mr. Roth. Sono stata la sua governante per 31 anni. Non parlavo molto, anche se avrei voluto chiedergli moltissime cose. Scriveva, scriveva, scriveva. Sempre. Io dovevo occuparmi delle faccende di casa. Quando era concentrat­o sui suoi libri non mi passava neanche per la testa di disturbarl­o. Dopotutto lavoravo per uno scrittore famoso. E poi sono sempre stata molto timida.

«Lo incontrai per la prima volta sulla 77ª strada, nell’Upper West Side, a New York. Era la fine degli anni Ottanta, Mr. Roth si sarebbe sposato poco dopo con la signora Bloom. Fu molto gentile con me, anche se all’inizio parlavo a malapena l’inglese. Non ricordo esattament­e l’anno di quel primo incontro. Ho una memoria pessima in fatto di date. Soltanto il mio arrivo non lo dimentiche­rò mai: arrivavo da El Salvador, era il 1981, cercavo una vita migliore qui in America. Ricordo, più di ogni altra cosa, che Mr. Roth era sempre molto impegnato. Solo più tardi, nel corso degli anni, si sarebbe concesso più tempo per sé stesso.

«“Buongiorno, come va?”, mi chiese appena oltrepassa­i la soglia della porta il primo giorno di lavoro. Poi andò alla scrivania e cominciò a scrivere mentre io mi preparavo per fare i mestieri di casa. Era la nostra routine. Ogni tanto, quando aveva bisogno, mi diceva: “Estela, può venire un attimo per favore?”. Trovai quel lavoro attraverso la signora Zerline Joffe, una sua amica che di mestiere faceva l’arredatric­e d’interni. Fu lei che arredò l’appartamen­to di Mr. Roth nell’Upper West Side.

«Per me era facile stargli vicino. Con il tempo ho imparato a fare le cose che mi chiedeva, sapevo esattament­e come voleva che fosse sistemato il suo appartamen­to. Era una persona molto pulita, molto organizzat­a. Odiava mettere profumi e non indossava anelli. Portava solo un orologio, anche quando andava in piscina. Voleva che tutto fosse sistemato al posto giusto con cura maniacale. Scriveva o leggeva sempre qualcosa quando facevo i mestieri. Gli capitava ogni tanto di rovesciare il suo succo di frutta — amava soprattutt­o quello all’arancia — e allora mi diceva, tutto preoccupat­o, “Estela, per favore, si è rovesciato il succo! Aiutami a sistemare”. Poi ridevamo e lui dava la colpa a un gatto immaginari­o che aveva colpito il bicchiere. Si inventava certe storie che lo facevano ridere con gusto. Aveva un grande senso dell’umorismo secondo me. Invecchian­do, soprattutt­o dopo i settant’anni, era diventato più felice, a parte quando soffriva per i suoi mali. Ogni tanto aveva forti dolori al collo e alla schiena che gli causavano violente crisi.

«Per anni sono andata a lavorare da lui il sabato, perché durante la settimana frequentav­o la scuola. Studiavo per diventare insegnante. Dopo essermi diplomata ho lavorato come maestra di sostegno per i bambini allo Shield Institute, che si trova a Flushing Avenue. Per mantenermi facevo anche un altro lavoro. Arrivata la pensione chiesi di poter anticipare il mio turno al venerdì — Mr. Roth è sempre stato molto flessibile sugli orari. Lavoravo dalle dieci del mattino alle due, due e mezza del pomeriggio. Lui era sempre in casa mentre ero lì. Durante la settimana era pieno di appuntamen­ti. Andava a nuotare e in palestra. Era a casa venerdì, sabato e do-

menica. Negli ultimi dieci anni ha assunto tre cuochi — Catharine, Oliver e Camille —, e gli amici venivano a trovarlo a casa. A lui piaceva cenare con loro. Prima era diverso. Prima che le sue condizioni di salute peggiorass­ero gli piaceva uscire la sera.

«Quando lo conobbi aveva un monolocale. Poi si trasferì nell’Upper West Side, sulla 79ª strada, al numero 130, nell’appartamen­to 12 F. Durante i mesi estivi andava in Connecticu­t, nella casa di campagna.

«Qualche volta mi diceva: “Estela, venga, si sieda qui con me”. Mi chiedeva della mia famiglia e delle mie due figlie, Veronica e Carmen, e mi domandava se fossi felice. Gli raccontavo tutto. Lui stava zitto e ascoltava. Poi, quando avevo finito di parlare, mi rassicurav­a: “Non si preoccupi, tutto andrà bene”. Se era di buon umore gli piaceva intrattene­rsi di più. Quando mi hanno chiamata quel 22 maggio per dirmi che Mr. Roth se n’era andato, il mio mondo ha smesso all’improvviso di esistere.

«L’ultima volta che lo vidi fu in ospedale. Era il 17 maggio. Non riusciva più a concentrar­si. “Non riesco a leggere, Estela”, mi disse con aria avvilita. “Guardi solo le figure, la farà stare meglio”, gli risposi ingenuamen­te. Gli chiesi se volesse qualcosa da mangiare ma rifiutò. Mi disse che non aveva più appetito. Sapevo che gli piacevano i donut alla marmellata di Zabar ’s, un negozio tra l’80ª e Broadway. Amava quei donut alla follia. Volevo portarglie­ne una scatola in ospedale ma mi chiese di non farlo. Era preoccupat­o per la sua salute. “Allora facciamo che gliene porto uno al mese”, risposi, cercando di metterlo di buon umore. L’ultima volta che lo vidi in ospedale gliene portai uno e mi disse: “No, no, Estela, non ora. Lo mangio quando torno a casa”. Ma lui a casa non è più tornato. Anche se la mia memoria mi tradisce spesso, non scorderò mai quel giovedì di maggio in cui gli parlai per l’ultima volta.

«Mr. Roth mi ha donato tutti i suoi libri. Il mio preferito è Patrimonio, perché è una storia vera. Il libro uscì nel 1991, qualche anno dopo aver iniziato a lavorare per lui. Fu uno dei primi che lessi. Mi è piaciuto perché è toccante, anche se devo ammettere che leggerlo è stato molto difficile. Ricordo che me lo dedicò nelle prime pagine. Scrisse: For my dearest Estela, per la mia carissima Estela, con la sua elegante e frettolosa calligrafi­a mancina. Purtroppo ho perso quel libro prezioso una volta che sono andata a Brooklyn a prendere uno dei miei cugini dal lavoro. È stato molto doloroso per me. Non credo di averglielo mai detto.

«Il venerdì era come un rito. Quando arrivavo la mattina nel suo appartamen­to lo trovavo seduto sulla sua poltrona preferita — una poltrona rotonda di pelle nera, uno di quegli oggetti che si comprano nei negozi di lusso — intento a leggere o a scrivere con il suo succo di frutta accanto. “Buongiorno Estela, come sta?”, mi salutava. Subito dopo avermi dato il benvenuto aggiungeva: “Com’è il tempo là fuori?”. Così iniziava il nostro rito del

venerdì. Poi io mi mettevo al lavoro. Lui ogni tanto faceva delle pause dalla scrittura e camminava per casa. Lo disturbavo solo per prendergli il bicchiere quando aveva finito di bere. Intorno era tutto pieno di libri, c’erano il suo tablet e l’agenda personale. Mi diceva: “Mi raccomando, Estela, non tocchi qui”. Allora io pulivo di fianco. Mentre lui scriveva, scriveva, scriveva in quell’appartamen­to così silenzioso, certe volte alla sua scrivania davanti alla finestra, altre sulla sua poltrona preferita, io facevo i mestieri: sistemavo il letto, preparavo la lavatrice, lavavo in bagno, mettevo via i vestiti, pulivo la cucina e il tappeto. Una volta, dopo che lo salutai alla fine del mio turno, si girò verso di me e disse: “Non posso vivere senza di lei, Estela. Deve venire da me ogni settimana. Me lo prometta”. “Noi abbiamo un contratto spirituale”, risposi. “Vivremo insieme fino a quando uno dei due non se ne andrà”. Io sono stata la sua unica governante.

«Prima che morisse si ricordò di un piccolo debito che aveva con me. Lo disse in ospedale al suo amico Benjamin Taylor, lo scrittore. Si trattava di 800 dollari, la mia ultima paga. Per me non era importante che lui si ricordasse di quei soldi. Preferivo rivederlo la settimana dopo a casa, preferivo che me li desse di persona. Mr. Roth si preoccupav­a sempre per la mia salute e per la mia famiglia. Mi chiedeva se stessi bene e se avessi bisogno di qualcosa. Sapeva che ero arrivata da El Salvador da sola, lasciandom­i la famiglia alle spalle. Mandavo i soldi a casa ogni mese. Qualche anno fa successe una cosa che non dimentiche­rò mai. Io sono divorziata e devo prendermi cura di mia madre, che ora è molto anziana e vive con me. Era il 2015. In quel periodo facevo fatica a pagare l’affitto e le spese, nonostante pulissi gli appartamen­ti di più di una persona in città. Vivere a New York è quasi proibitivo per gente come me, richiede enormi sacrifici e sforzi. Un giorno Mr. Roth mi disse che voleva aiutarmi economicam­ente, perché era sicuro che quando sarei invecchiat­a ne avrei avuto bisogno. In quell’istante ebbi il coraggio di raccontarg­li i miei problemi. “Mi faccia pensare. Ne parlo con il mio avvocato”, mi rispose. Il venerdì dopo, quando arrivai a casa sua, ad aspettarmi c’era la sorpresa più bella della mia vita. Mr. Roth mi regalò 70 mila dollari per coprire le mie spese. Con quei soldi e altri risparmi comprai nel 2016 un piccolo appartamen­to a Jackson Heights, nel Queens, una zona di periferia in cui mi trovo bene. A dire la verità non è stata la sola volta che ha dimostrato tanta generosità con me. Nel 2001, l’anno in cui feci un intervento di artroscopi­a alla spalla destra, mi aiutò con mille dollari. Poi mi mandò dalla sua fisioterap­ista personale, che aveva uno studio sulla 69ª, all’incrocio con Broadway.

«Al suo funerale, il 28 maggio al Bard College — quel giorno cadeva il Memorial Day —, c’erano più di cento persone. Erano arrivate su tre grandi pullman. Conoscevo alcuni dei presenti perché ogni tanto gli facevano visita a casa. Non ricordo i loro nomi ma se li vedo li riconosco. Erano per la maggior parte amici. Quando arrivammo ci offrirono caffè e dolci. Lui è stato sepolto alle

due del pomeriggio. Il fatto che quel giorno ci fossero molti amici non mi ha stupita. Lui ha sempre cercato di aiutare tutte le persone che facevano parte della sua vita. Offriva volentieri la stanza degli ospiti se qualcuno ne aveva bisogno. Ricordo che anni fa, un dicembre alla fine degli anni Novanta, la scrittrice Veronica Geng subì un’operazione delicata e lui le diede ospitalità durante la convalesce­nza. Purtroppo Veronica morì di cancro al cervello poco dopo l’intervento. A sua volta, Mr. Roth poteva contare sull’aiuto dei suoi amici. Tre o quattro anni fa un’altra scrittrice, Lisa Halliday, è rimasta per una settimana nel suo appartamen­to dell’Upper West Side. Lo ha aiutato dopo i due interventi chirurgici che aveva subito.

«Ma Mr. Roth non aiutava soltanto gli amici. Nel suo quartiere c’era un ambulante di nome Enrico Adelman che vendeva libri all’incrocio tra l’ottantesim­a e Broadway, proprio davanti al suo amato Zabar’s. Mr. Roth si fermò una volta alla sua bancarella. Era il 1989, questo me lo ricordo. Con il tempo i due fecero amicizia. Per i 29 anni successivi quell’uomo si è presentato regolarmen­te a casa di Mr. Roth con scatole di suoi volumi per chiedergli se poteva autografar­li. Mr. Roth li ha firmati tutti. Erano migliaia. Adelman si fece firmare anche una copia del “Esquire” dove c’era un articolo su di lui. Lo scorso a pri l e , ve r s o l a f i ne del mese, gli portò altri 300 lib r i . I l 1 8 ma g g i o Ro t h scrisse un messaggio ad Ade l man s u l c e l l u l a r e : “Sono in ospedale”. Quei libri sono rimasti tra i pochi che non è riuscito a farsi autografar­e.

«Ho parlato con quell’uomo non molto tempo fa: oggi ha un magazzino in un seminterra­to, allo stesso incrocio dove aveva cominciato da ambulante. Un tempio dedicato a Philip Roth.

«Mr. Roth non parlava molto della sua famiglia. Ogni primavera andava al cimitero, nel New Jersey, a t r ova r e i s u o i g e n i to r i . Quando tornava mi diceva se aveva trovato bel tempo o meno. Una volta aiutò una sua cugina in fin di vita. Anche in quel caso fu molto generoso e le diede i soldi di cui aveva bisogno per le cure mediche. Poi un giorno mi disse, con un tono molto grave: “È morta”. Soltanto queste due parole. Doveva essere due anni fa.

«Mi mancano le giornate con lui. Ricordo quando rideva al telefono con gli amici. Allora ero felice anch’io. Mi mancano soprattutt­o le piccole cose. Una volta, per esempio, avevo perso gli occhiali da vista, molto costosi. Io sono sia miope che presbite. Lui mi accolse la settimana dopo in casa con un sorriso e mi diede un cordino: “Ecco”, disse divertito, “la prossima volta non li perderà”. Un’altra volta, invece, mentre preparavam­o la sua valigia per il Connecticu­t, mi chiese tutto preoccupat­o: “Estela, dove sono le mie mutande per il Connecticu­t? Non le trovo più”. Gli dissi che non ne avevo idea. Le cercammo senza trovarle e concludemm­o che doveva averle dimenticat­e in campagna l’estate precedente.

«Gli piaceva molto la musica classica. Quando scriveva, però, doveva esserci silenzio assoluto nell’appartamen­to. In casa aveva anche moltissimi film. Ogni tanto lo lasciavo solo nell’appartamen­to e uscivo a fare compere. Lui odiava fare la spesa. Mi dava la sua carta di credito e gli compravo tutto quello di cui aveva bisogno. Amava moltissimo il pesce. Prima che i cuochi gli preparasse­ro i piatti semplici che il dottore aveva prescritto, mangiava soprattutt­o tofu, pomodori secchi, bagel o pane. Ultimament­e i suoi pasti erano composti da pollo e insalata. E poi i succhi di frutta. Non passava giorno senza berne almeno uno. Prima che la sua salute peggiorass­e era anche molto goloso. Una volta, per sbaglio, comprò due grandi pacchi di barrette al cioccolato. Disse che me ne avrebbe date un po’ da portare a casa ma se ne dimenticò. Io non glielo ricordai. Un’altra volta, invece, mi pregò di portare del cioccolato a mia madre perché per lui era troppo e lo avrebbe divorato tutto all’istante.

«Conservo ancora un paio di guanti che mi regalò quattro o cinque anni fa. Lui era sempre molto semplice e diretto. Mi disse: “Ecco, Estela. Ho comprato questi per lei”, e me li mise in mano. Penso spesso a tutte le volte che non ho potuto trascorrer­e più tempo con lui al di fuori della nostra routine. Qualche volta si è messa di mezzo la cattiva storte. Per esempio quando mi invitò a uno dei suoi reading, sulla 92ª strada, alla comunità ebraica. Quel giorno stesso si ammalò e l’evento venne cancellato. Mi invitò anche nella sua casa del Connecticu­t ma non riuscii mai a raggiunger­lo.

«Un mese di marzo abbastanza recente eravamo tutti insieme a festeggiar­e il suo compleanno. C’erano anche la sua cara amica Julia Golier con il marito e i figli gemelli. Era un giorno felice per me. Qualcuno scattava fotografie. Quel giorno avrei voluto chiedergli una cosa ma non ne abbi mai il coraggio. Avrei voluto chiedergli: “Mr. Roth, vuole fare una fotografia con me?”. Ecco il mio più grande rimpianto: non poterlo rivedere qui accanto a me».

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La governante Estela Solano (qui sopra) è stata per oltre trent’anni la governante di Philip Roth. Ha 68 anni ed è originaria di El Salvador. È emigrata negli Stati Uniti nel 1981. Ha conosciuto Roth attraverso la designer d’interni Zerline Joffe, che aveva arredato l’appartamen­to del grande romanziere a Manhattan Le immagini In questa pagina: un dettaglio della libreria di casa di Estela Solano, con alcune opere di Roth. Nella pagina accanto, dall’alto: la mappa della casa di Roth sulla base di un disegno di Estela Solano e un libro che l’autore le aveva dedicato
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