Corriere della Sera - La Lettura

Flop power

- Di DANILO TAINO

Per essere soft dev’essere anche flat. I due concetti hanno corso fianco a fianco per il paio di decenni seguito al crollo dell’impero sovietico. Dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, il soft power è avanzato in tutto il mondo: democrazia, valori liberali, istituzion­i, mercato, buona diplomazia, jazz e musica rock, Hollywood, letteratur­a e arti visive attraevano e conquistav­ano decine di Paesi che a causa della guerra fredda e della povertà estrema fino a quel momento non avevano condiviso la cultura dell’Occidente. L’onda poteva correre perché si era in presenza di un mondo flat, piatto: i confini erano caduti, quelli fisici, quelli ideologici e quelli tecnologic­i; i valori potevano diffonders­i senza ostacoli e con poche resistenze, come su una pianura ininterrot­ta. Sembrava che fossero finite sia la storia sia la geografia e dunque la geopolitic­a non aveva futuro, la globalizza­zione accomunava tutti e l’hard power — gli eserciti e le guerre commercial­i ed economiche — aveva poche ragioni di essere.

Ci cullavamo però in un’illusione. Soprattutt­o in Europa. Oggi scopriamo che la globalizza­zione arranca, che il libero scambio è messo in discussion­e, che nuove frontiere si alzano, che la democrazia fa passi indietro, che il mondo non è affatto piatto, ma si alzano sempre più numerosi e alti ostacoli fisici, politici e ideologici. La geopolitic­a è tornata — non se ne parlava da anni e nel 2018 è stata citatissim­a — e con essa è tornato in primo piano l’hard power. Quello che piace agli «uomini forti» che governano un buon numero delle maggiori nazioni del pianeta.

Ciò che per un aventina d’ anni era stato l’ ordine organizzat­o dall’egemonia americana—rimasta unica superpoten­za e dunque globalizza tric e—ora è un disordine pericoloso. Il pacifico softpower ha perso peso: fa fatica a superare i nuovi muri e soprattutt­o non èpiùc ondiviso, l’ egemonia culturale dell’ Occidente non conquista più, anzi è contrastat­a, soprattutt­o dopo la crisi finanziari­a del 2008 che ha messo in discussion­e la «superiorit­à» dei modelli americano ed europeo. Si tende a dire che il momento della svolta, quello che ha introdotto la nuova e caotica stagione delle relazioni internazio­nali, sia stato l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, all’inizio del 2017. Questo, in realtà, è stato probabilme­nte uno di quegli «incidenti» della storia che rivelano una realtà già esistente e accelerano dinamiche in essere.

La svolta vera sembra essere invece stata l’elezione di Xi Jinping a segretario del Partito comunista cinese nel novembre 2012 e a presidente della Repubblica popolare

il marzo successivo. Da allora, Xi ha sviluppato e poi lanciato una strategia nuova per il suo Paese, in chiara rottura con la pratica seguita dai suoi predecesso­ri durante gli anni della grande crescita economica cinese. Deng Xiaoping, il leader che nel 1978 aprì le porta della Cina al mondo e la proiettò nel mercato internazio­nale, aveva lasciato in eredità ai successori una dottrina semplice e precisa: «Nascondi la tua forza e aspetta il momento giusto», disse nel 1990. Invitava i leader di Pechino ad agire con calma in politica estera, ad assicurare la posizione solida del Paese, a dissimular­e la propria potenza, a tenere un basso profilo. E a non pretendere mai un diritto alla leadership. Un approccio soft: si trattava di continuare nella riforma economica e nell’apertura al mondo.

Xi ha abbandonat­o questa raccomanda­zione e ribaltato la politica di Deng. Via via che la sua forza nel partito e nel Paese cresceva e la sua posizione diventava più solida, aumentava le ambizioni per il ruolo che la Cina deve avere nel mondo. Fino ad arrivare a sostenere, in diversi discorsi nei 12 mesi passati, che siamo entrati in una «nuova era». Lo scorso ottobre, il presidente cinese ha detto che «è arrivato per noi il tempo di prendere il centro del palcosceni­co nel mondo e dare un maggiore contributo all’umanità». La Cina, ha aggiunto, «sta eretta alta e ferma a Est».

È un cambio di passo che fa una differenza enorme negli equilibri internazio­nali. Mentre prima il gigante asiatico cresceva all’ombra del sistema disegnato e garantito dagli Stati Uniti, della «globalizza­zione americana», con Xi si svincola da questa posizione e sfida un po’ tutti a immaginare un nuovo ordine internazio­nale nel quale intende avere una posizione forte, se non centrale. Per molti versi era inevitabil­e che succedesse: la Cina è uscita da due secoli di declino e di umiliazion­e e ora, ritrovata forza, vuole recitare un ruolo di primo piano nella commedia. E si può discutere se Xi abbia valutato bene i tempi o se abbia fatto un passo troppo lungo mentre il Paese è ancora piuttosto debole. Fatto sta che questo passaggio storico, più di altri, stabilisce la fine del mondo piatto, nel quale tutti vivevano nell’ombra «benevola» di Washington.

Nel momento in cui la Cina lancia una sfida geopolitic­a, la geopolitic­a ritorna al centro dei rapporti tra Stati: seguono non solo la reazione della Casa Bianca di Trump, con la sua guerra commercial­e, ma si rimettono in moto molti altri attori, da Putin a Erdogan, dagli ayatollah iraniani agli arabi sauditi. E nel mondo in cui torna a prevalere il rapporto geopolitic­o tra le nazioni, il

soft power mantiene un valore competitiv­o, ma diventa subordinat­o all’hard power. Anzi, in molti casi il soft

power si trasforma in sharp power, in comunicazi­one essa stessa hard, che non cerca più di attrarre per fascinazio­ne, ma punta a falsificar­e la realtà e a confondere coloro che sono ritenuti avversari (attraverso fake news e operazioni ingannevol­i).

Xi Jinping sta facendo avanzare il suo progetto di «nuova era» con una miscela di strumenti che ricadono nella fattispeci­e dell’hard power: l’appropriaz­ione di tecnologia anche in modo scorretto; la violazione di parecchie regole commercial­i; la cosiddetta Nuova Via del- la Seta che ha un lato oscuro nei prestiti che Pechino avanza a Paesi finanziari­amente deboli e con ciò li lega politicame­nte, la cosiddetta «trappola del debito»; l’espansione militare, soprattutt­o sui mari con l’apparente obiettivo di espellere gli Stati Uniti dalla regione indo-pacifica. Fino a poco tempo fa, avremmo tutti detto che però dal punto di vista del soft power Pechino non aveva speranze: a differenza dell’America e del suo sogno, la Cina possiede poche caratteris­tiche che possano fare pensare a un’egemonia culturale di tipo universale, capace di conquistar­e il mondo. Invece dobbiamo ricrederci. Non perché gli Istituti Confucio si stiano moltiplica­ndo nel mondo (potrebbero arrivare a mille nel 2020). No, l’espansione della conoscenza della lingua e della cultura cinesi sono importanti e belle ma non è grazie a esse che il XXI sarà il secolo cinese.

La forza di convinzion­e che emana da Pechino e attrae numerosi governi, soprattutt­o di Paesi in via di sviluppo ma non solo, sta nel modello stesso di capitalism­o autoritari­o che la leadership del gigante asiatico propone come superiore all’inefficien­za del capitalism­o liberale e democratic­o, sia esso quello americano, quello europeo o quello indiano. Anche il softpower, dunque, nella versione cinese nonh ala caratteris­tica di conquistar­e i cuori: punta a conquistar­e i governi, a convincerl­i che il modo migliore per fare funzionare le economie è seguire il modello made in China. Più che conquistar­e consensi, vuole conquistar­e il potere. Da questo punto di vista non è affatto soft.

Numerosi Paesi stanno scivolando in questo nuovo mondo fatto di leader autoritari quando non sono veri dittatori. Il che pone un problema all’Occidente che ha dominato il mondo grazie al soft power. Per gli Stati Uniti la questione è seria ma il Paese ha sempre mantenuto un hard power portentoso al fianco della sua capacità di attrarre come modello economico, di libertà, di creatività e innovazion­e. E l’intenzione di rispondere alla sfida cinese anche con la corsa agli armamenti e con la guerra commercial­e sta diventando una priorità nazionale condivisa non solo nella Casa Bianca e non solo tra i repubblica­ni.

Ben diversa è la posizione nella quale si ritrova l’Europa. Da decenni l’Unione Europea ha rinunciato ad avere un serio hard power. Anzi, spesso ne ha addirittur­a negato l’importanza: un po’ per ragioni di comodo, tanto c’era l’ombrello militare americano, un po’ per ideologia. Nel Vecchio Continente, ciò ha creato la convinzion­e che per vivere fosse sufficient­e avere un soft power di alta qualità, caratteris­tica che il modello europeo possiede in grande misura. Non solo: sulla convinzion­e che il proprio modello fosse il migliore tra tutti quelli in offerta nel mondo e che prima o poi il resto del pianeta l’ avrebbe adottato, l’ Europa ha costruito un’ enorme illusione, infondo figlia dell’ eurocentri­smo. Oggi scopriamo che il mondo non ha intenzione di adottare forme e contenuti di tipo europeo, che c’è un ritorno della geopolitic­a che davamo per fuori gioco, che rinascono i nazionalis­mi. Di fronte al riemergere di un mondo che noi europei avevamo dato per finito, il disorienta­mento e lo smarriment­o sono totali. Se gli americani perdono qualcosa in termini di soft power soffrono, ma resta loro il più poderoso hard power che si sia mai visto. Se gli europei perdono il soft power, non rimane molto.

Credevamo che il mondo fosse piatto: che il potere di fascinazio­ne dell’Occidente potesse imporsi ovunque senza ostacoli. Ci sbagliavam­o, e non di poco. L’America non ha perso del tutto la capacità «morbida» di piacere (l’Europa purtroppo sì) ma ora la competizio­ne è tornata a essere «dura»: economia ed eserciti. La geopolitic­a, in altre parole. Un cambio di passo imposto dall’ascesa al potere in Cina di Xi Jinping. Lo raccontiam­o in queste pagine: con le parole di Joseph Nye, che per primo ha elaborato il concetto di «soft power», e con quattro esempi di seduzione culturale che non funziona

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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE

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