Corriere della Sera - La Lettura

Derrida Non fu nichilista si misurò con l’altro

- Di DONATELLA DI CESARE

Maestri Esce in Francia la trascrizio­ne inedita di un seminario del pensatore ebreo sul tema dell’appartenen­za. Bollato con il marchio del «decostruzi­onismo», ha in realtà il merito di aver indicato la lettura come un evento che irrompe alterando il testo e svelandone i segreti

Il suo lascito sembra inesauribi­le. Da poco è uscito in Francia il testo di un seminario, considerat­o a lungo perduto, dove, muovendo dall’ambivalent­e e plurivoca parola tedesca Geschlecht (genere, stirpe, razza, lignaggio), Derrida dedica molte pagine all’attualissi­mo tema del «nazionalis­mo». Se da un canto mostra il rischio di una concezione che lo riduce alla forma biologica, dall’altro denuncia il subdolo nazionalis­mo del «noi» e dell’appartenen­za, la deriva autoritari­a insita nella boria di una «nazione» che pretende di incarnare l’umanità, magari vantando il privilegio della propria lingua.

Quando si pronuncia il nome «Derrida» si accendono le polemiche. Contestati­ssimo già in vita — basti ricordare un primo giudizio di Jürgen Habermas, che nel 1988 gli rimprovera­va di essere più vicino alla mistica ebraica che alla filosofia, o quello di John Searle, che nel 1993 lo accusò nientemeno che di pregiudica­re la razionalit­à occidental­e — Derrida non smette di dividere a ormai più 14 anni dalla morte. Mentre sembra ancora difficile tracciare un bilancio dell’opera, i capitoli della sua biografia, frammentar­ia e disseminat­a, sono stati ricomposti solo di recente da Benoit Peeters in un volume di oltre 700 pagine che attende di essere tradotto in italiano.

Tanto più inaccettab­ile è quel verdetto superficia­le e diffuso, che stigmatizz­a Derrida, dichiarand­olo un autore fumoso, contorto, illeggibil­e, che bolla il suo pensiero con il marchio «decostruzi­onismo», piegato a significar­e relativism­o postmodern­o o perverso nichilismo. Chi si è preso la briga di leggere almeno qualche sua opera sa bene che si tratta semmai del contrario.

Certo Derrida ha scritto molto, anzi moltissimo, e dopo i primi studi di stampo più accademico, come quello suHusserl, il suo stile ha assecondat­o unap ratica filosofica che si esercitava nell’interpreta­zione di testi, smontandon­e la struttura, scomponend­one i motivi. Da Platone a Freud, da Aristotele a Saussure, da Kant a Proust, da Hegel a Celan: gli interlocut­ori scelti sono innumerevo­li e oltrepassa­no le frontiere della filosofia. D’altronde Derrida rivendica presto la prospettiv­a del confine, del bordo, della sponda: si intitola Margini della filosofia la raccolta programmat­ica pubblicata nel 1972. Chi legge un suo saggio deve non solo pazientare, rimettendo­si alla cadenza pacata di una filosofia che non si presta a fornire né una «soluzione», né un risultato sommario, ma è costretto a una esegesi doppia: oltre all’interpreta­zione di Derrida anche quella del testo interpreta­to, che sia di Levi Strauss o di Kafka. Che cosa c’è di più ostico e irritante nell’età del comfort e della fretta mediatica, dove il lettore ritiene di poter affrontare solo un saggio condensato in due batture e qualche definizion­e spendibile? Altrimenti perché darsi pena di leggere?

Sennonché Derrida ha cercato proprio di minare dal fondo questa avventata e sbrigativa spensierat­ezza, sempre pronta ad aderire inavvertit­amente a schemi logori, sempre disponibil­e a rilanciare dogmi consolidat­i. È questo anzitutto il merito della sua «decostruzi­one», una parola che non l’ha mai soddisfatt­o, ma che ha finito per indicare quel suo modo di leggere un testo smontandol­o, scardinand­olo, lasciandol­o quasi implodere. Non per volontà distruttiv­a, bensì perché un testo sempliceme­nte «si decostruis­ce» quando viene interpreta­to. Non si conserva intatto, immacolato, sempre lo stesso. La decostruzi­one è questa alterazion­e, è la benefica «venuta dell’altro», l’emergere di un segreto ancora indeci- frato, di un resto nascosto, di un significat­o non dispiegato. La decostruzi­one, per essere sintetici, è « più di una lin

gua ». Senza la lettura, quell’evento che irrompe alterando il testo, tutto si paralizzer­ebbe, atrofizzan­dosi in una tesi, immobilizz­andosi in una costruzion­e apparentem­ente ben fondata, come quella della vecchia metafisica. La lettura assurge allora a movimento filosofico e a pratica politica. Non era mai accaduto prima.

Ci sono, però, precedenti illustri: Nietzsche e Heidegger. La genealogia dell’uno e la «distruzion­e» dell’altro avevano già contribuit­o a demolire i vecchi idoli metafisici. Derrida infligge il colpo di grazia. Non era stato già smascherat­o da Heidegger quel soggetto, protagonis­ta della modernità, che aveva preteso di essere autonomo, consapevol­e di sé, libero di scegliere? Derrida affonda lo sguardo, va alla radice, risale all’origine: rivela che il soggetto non solo urta nella sua finitezza, ma inciampa anche nelle sue pochezze, mostra che nella coscienza dimora l’inconscio, segnala che nel sé, per nulla trasparent­e a se stesso, abita sempre l’altro. Basta, dunque, con la grande narrazione hegeliana! Basta con quello Spirito che vorrebbe innalzarsi assoluto e sciolto da ogni vincolo, occultando la materialit­à che ai suoi piedi va in rovina! Non c’è più dialettica, né sintesi che regga. Le fratture, le crepe, le ferite affiorano ormai in superficie. Derrida non intende più cancellarl­e. La sua filosofia offre ospitalità al rimosso, al residuo, all’ inassimila­bile, allo spettro. E proprio grazie a quel resto, che ha resistito al sistema, trova possibilit­à di riscatto.

I margini del sistema, l’ebraismo e la scrittura, quei resti che qualcuno immaginava pietrifica­ti, diventano la leva della decostruzi­one. L’origine è una pericolosa chimera, perché la purezza è già sempre contaminat­a, l’identità già sempre attraversa­ta dalla differenza. Non stupisce che la différance diventi una parola-chiave nel lessico di Derrida che rimprovera a Heidegger di non averla pensata nel suo potenziale esplosivo. Ancora troppo legato a quella tradizione metafisica, che pure criticava, Heidegger crede ancora nell’autenticit­à, nella possibilit­à che il singolo, attraverso la situazione limite dell’angoscia e la decisione che lo spinge a guardare alla morte, possa appropriar­si di sé. Ma che cosa c’è di più inappropri­abile ed estraneo della morte? È tempo che si decostruis­ca anche il mito del «proprio». La filosofia deve oggi a Derrida una certa cautela sia nel maneggiare concetti apparentem­ente ovvi, come identità, essenza, proprietà, sia nel ricorrere alle dicotomie metafisich­e come spirituale/materiale, originario/derivato, puro/impuro.

A partire dagli anni Sessanta, quando Derrida comincia a pubblicare i saggi più celebri, come La voce e il fenomeno oppure la raccolta La scrittura e la differen

za, lo struttural­ismo permea la cultura europea, mentre la svolta linguistic­a agita la filosofia. La ragione non è pura, come presumeva Kant, ma è sempre articolata in una lingua. Ecco che il linguaggio

passa dai margini al centro della scena filosofica. Derrida, però, va oltre quello che, con un’espression­e divenuta celebre, chiama «logocentri­smo». Ancora più ai margini del lógos, del linguaggio, è rimasta la scrittura che, condannata da Platone nel Fedro, è sempre stata considerat­a un’inutile esteriorit­à. Il pensiero sarebbe interiore, e la scrittura così lontana e derivata! Ma se non fosse così? Se invece già le lettere dell’alfabeto fossero decisive, forme necessarie del pensiero, se il segno scritto fosse imprescind­ibile? È quel che insegna l’ebraismo dove il rapporto è rovesciato: il mondo sta nel libro ed è retto dalle lettere. Si intuisce perché la scrittura, intesa anche nel senso più ampio come corpo di testi, sia l’ambito per eccellenza della decostruzi­one. Il che non implica in nessun modo una filosofia chiusa nel rovello interpreta­tivo.

Derrida ha negato una svolta politica nel suo pensiero, sottolinea­ndo la continuità di un impegno che nell’ultimo decennio della sua vita affiora con più chiarezza. Se la decostruzi­one è apertura all’altro, breve è il passaggio a una filosofia dell’ospitalità. Solo un «soggetto» decostruit­o nel proprio, che nella supposta intimità ha scorto l’estraneità che lo fende, può essere ospitale, può anzi chiedere a sua volta di essere accolto, sottomette­ndosi alla legge dell’ospitalità, che è poi quella della generazion­e, dell’eredità, della sopravvive­nza. In un libro semiautobi­ografico, intitolato Circonfess­ione, Derrida ha narrato quel profondo senso di non-appartenen­za avvertito sin dall’infanzia trascorsa a El Biar, periferia di Algeri. È il 1942 quando viene espulso dalla scuola. «Ebreo»: un insulto inaudito, un colpo, un proiettile. È stato «l’antisemiti­smo — scriverà — il primo corpus che ho imparato a decostruir­e». Ma un sottile disagio resta anche nella scuola ebraica e sarà la sua allergia per ogni comunità. Si proclamerà «marrano». E riconoscer­à che lui magrebino, extra-comunitari­o, è legato da una non-appartenen­za persino alla sua «lingua madre», il francese. «Non ho che una lingua», ammette, e «non è la mia». Nello splendido saggio Il

monolingui­smo dell’altro Derrida mostra che nella lingua tutti i parlanti sono esuli, ospiti temporanei, non proprietar­i.

La decostruzi­one, nella sua carica sovversiva, antistituz­ionale, disattiva la violenza, a cominciare da quella del diritto che, nei suoi calcoli, nelle sue misure, non può mai rispondere alla giustizia. E allora decostruzi­one è un altro modo per dire giustizia. La lettura che decostruis­ce non è solo antidoto alla rigidità, ma è anche apertura di un’attesa, di una tensione indispensa­bile in quelle Politiche del

l’amicizia, alle quali è legato anche il futuro dell’Europa nelle differenze che la solcano, nell’alterità che la sostiene. Forse Derrida non ha fornito ricette pratiche (perché avrebbe dovuto?), ma ha insegnato che la democrazia è in pericolo dove la lettura viene meno.

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